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Il Fenomeno Trolling: autocoscienza e dialettica servo-padrone ai tempi di Facebook

Tempo fa un amico mi scriveva: “Ho saputo che da qualche settimana stai litigando su Facebook con ****, che nel mondo del giornalismo italiano e’ un astro nascente. Stai attento, che per il mestiere che fai e’ pericoloso.” Non era la prima volta che ricevo consigli del genere, e non era la prima volta che ne conoscevo le ragioni. Quante volte mi sono detto: sii piu’ cauto, commenta solo quanto necessario; clicca “mi piace” quando non e’ compromettente; evita un linguaggio acido e polemico. Magra e’ la consolazione di non essere solo in questa debolezza. Un altro amico mi confessava:  ”Quando leggo la maggior parte dei giornali online mi faccio prendere da un moto di rabbia… A volte non riesco a fare a meno di intervenire, condividere, dire la mia. Ma per il mio lavoro e’ imbarazzante. A volte creo profili fittizi. O resto anonimo.”
 
Non e’ una sorpresa che la struttura dei social media e di Internet 2.0 in generale si basi sulla tendenza umana a condividere sensazioni e informazioni. Sulla nostra nostra incapacita’ di autocontrollo, sulla nostra mancanza di disciplina interiore. Il problema e’ che i social media rendono sempre piu’ trasparenti le nostre vite in una cultura che fa dipendere il nostro sviluppo sociale da una miriade di segni, di dettagli, di esami da superare. Rendendoci cosi’ vittime della nostra stessa addiction.

Suicidio e Lotta

Congedarsi dalla lotta: il suicidio nell’antropologia politica.
 
Si parla molto di suicidio, di questi tempi. Sembra che il corpo del suicida sia tra i pochi elementi, nella narrazione della crisi attuale, capaci di scalfire la criminale impeccabilità del potere. Il corpo del suicida e’ esibito, sfruttato, sballottato, impiegato come metafora, come arma emotiva e fisica. Di fronte alla sofferenza di milioni le leggi non si piegano, ma di fronte al gesto suicidario si fermano i carri armati.
 
Si è popolato di gesti suicidi l’immaginario degli ultimi vent’anni, a partire da quei corpi che precipitavano dalle Torri Gemelle in fiamme, e subito dopo la sequenza infinita di attacchi kamikaze in Iraq e Afghanistan – attacchi, va detto, che hanno causato più morti tra le file dell’esercito USA che le azioni di combattimento vere e proprie. È stata poi l’autocombustione di Mohamed Bouazizi  a scatenare la rivolta in Tunisia l’anno scorso,  e non certo il passaparola su Twitter o Facebook – come invece hanno tentato di farci credere i giornalisti occidentali. E sono gli atti suicidari delle vittime della crisi finanziaria a conquistare, forse più delle proteste di massa, le pagine dei quotidiani d’Occidente.
 

In viaggio coi Librotraficantes


«
Lontano, lontanissimo, in mezzo al nulla è successo qualcosa».

- N. Scott Momaday

 

Nel marzo scorso ho avuto la fortuna di poter seguire la spedizione dei Librotraficantes, un gruppo di attivisti americani diretti in Arizona per protestare contro una legge che ha cancellato il corso di Ethnic Studies dai licei dello stato, nonché vietato l’insegnamento di numerosi classici della letteratura Mexican-American e mondiale: da The House in Mango Street di Sandra Cisnerosa La Tempesta di Shakespeare, che secondo i legislatori avrebbero instillato nei giovani del sentimento antiamericano e pericolose idee rivoluzionarie. 

Piccolo saggio sulla diserzione

Quando non può lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l'andatura di cappa che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa e un minimo di tela. La fuga è spesso, quando si è lontani dalla costa, il solo modo di salvare barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all'orizzonte delle acque tornate calme. Rive sconosciute che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l'illusoria fortuna di poter seguire la rotta dei carghi e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione. Forse conoscete quella barca che si chiama desiderio.

  • Henri Laborit, Elogio della Fuga, 1976.

Costringerci al nomadismo: se lo sgombero di Occupy Wall Street può far bene al movimento

Avevo visitato il primo campeggio di Occupy Wall Street il 17 settembre scorso, non appena s'era installato nello Zuccotti Park su ispirazione della rivista Adbusters. Era poco più d’un avamposto beduino nel deserto. Spoglio e quasi indecifrabile, per noi mediterranei barocchi, nel suo rigore puritano: pochi cartelli e qualche sedia, tende immacolate, volti ancora spensierati nonostante gli arresti già numerosi. I più giovani venivano mandati a fare provviste di kebab e pizza dagli ambulanti locali, che alla vista di qualche signorina-manager in talleur facevano l’occhiolino: Let’s occupy some bitches, men! Quelli più propensi alla performance artistica facevano capolino nei negozi, nei McDonald, improvvisando recital, canti e balli a tema. Nel campo c’era bisogno di tutto perché mancava tutto, essendo incerta la sua sopravvivenza.

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