Congedarsi dalla lotta: il suicidio nell’antropologia politica.
Si parla molto di suicidio, di questi tempi. Sembra che il corpo del suicida sia tra i pochi elementi, nella narrazione della crisi attuale, capaci di scalfire la criminale impeccabilità del potere. Il corpo del suicida e’ esibito, sfruttato, sballottato, impiegato come metafora, come arma emotiva e fisica. Di fronte alla sofferenza di milioni le leggi non si piegano, ma di fronte al gesto suicidario si fermano i carri armati.
Si è popolato di gesti suicidi l’immaginario degli ultimi vent’anni, a partire da quei corpi che precipitavano dalle Torri Gemelle in fiamme, e subito dopo la sequenza infinita di attacchi kamikaze in Iraq e Afghanistan – attacchi, va detto, che hanno causato più morti tra le file dell’esercito USA che le azioni di combattimento vere e proprie. È stata poi l’autocombustione di Mohamed Bouazizi a scatenare la rivolta in Tunisia l’anno scorso, e non certo il passaparola su Twitter o Facebook – come invece hanno tentato di farci credere i giornalisti occidentali. E sono gli atti suicidari delle vittime della crisi finanziaria a conquistare, forse più delle proteste di massa, le pagine dei quotidiani d’Occidente.
In questo breve excursus vorrei affrontare la fenomenologia del suicidio sotto il profilo dell’antropologia politica, in funzione di una figura in particolare: il rivoltoso. Colui che si arroga il diritto di giudicare, di dire «no». «No» alla società che lo circonda, a uno modello sociale atrofizzato, al richiamo ambiguo dell’oppressore o anche a forme di protesta manipolate da quello stesso oppressore. Che cosa può imparare colui che si rivolta, ora, nel presente, anche se non soprattutto per un futuro diverso, da un gesto che per definizione rappresenta il taglio di ogni ponte con il domani?
L’autismo necessario.
Innanzitutto, bisogna prenderne atto: legare una strategia di lotta al sensazionalismo mediatico indotto dal suicidio è una scelta perdente: si diventa subalterni al sensazionalismo e si rischia l'effetto boomerang, nel momento in cui esso sparisce o viene diretto contro chi si rivolta.
In Italia, per esempio, si dibatte molto sul suicidio nel contesto della crisi economica. Tutti gli osservatori politici, o quasi, per motivi più o meno limpidi sembrano prendere a cuore le storie di «chi non ce la fa». Nella narrazione della crisi il suicidio assume un forte valore simbolico e segna un cambio di passo drammatico nell’agenda dei comunicatori. Eppure emerge un dato: le persone che si tolgono la vita a causa di difficoltà economiche non sono in aumento. Lo spiega, dati alla mano, un interessante e puntiglioso report della rivista Wired, che ha fatto presto il giro della Rete:
"In Germania, la cui economia tiene, il numero dei suicidi è quasi doppio rispetto all’Italia e in Finlandia, dove la qualità della vita è molto più alta, i suicidi sono quattro volte superiori ai nostri. Nella Grecia sull’orlo del collasso ci sono poco più della metà dei suicidi rispetto all’Italia e può sembrare paradossale, ma il paese nel quale la situazione economica è più drammatica è anche quello dove si verificano meno suicidi in tutta Europa.”
Niente "boom suicidi", dunque. Le televisioni e i giornali hanno gonfiato con il solito clamore un fenomeno limitato statisticamente.
Svelato senza troppe sorprese l'inganno mediatico e populista, cosa resta della nostra lotta? Dovremmo dare ragione a quegli acuti osservatori liberal che si precipitano ad mettere in guardia l’opinione pubblica dall’allarmismo sociale, dal possibile “brodo di coltura” di reazioni violente, rabbiose e chissà, forse pure sovversive?
Dovremmo cambiare le nostre strategie, se le vittime di un’ingiustizia sono la metà, o un terzo di quanto immaginavamo?
I numeri non si possono ignorare, dicono i razionali. Partire da un dato numerico può dare indubbiamente concretezza ad una battaglia.
Ma quando i numeri diventano manette? L’esperienza dovrebbe insegnarci che la dignità umana non si puo’ comprimere in un mero dato statistico.
Prendiamo la Sicilia. Sono sicuro che a Cinisi, dove Peppino Impastato fu fatto saltare in aria, ci siano proporzionalmente molti meno suicidi che in un qualunque quartiere di Amsterdam o di Londra. Sono sicuro che avranno avuto molti più momenti di sconforto Impastato e i suoi compagni, chiusi nei loro garage ed emarginati dalla società, che i mafiosi che essi combattevano, accettati e integrati.Sono anche sicuro che Impastato e la sua tribù liberata hanno studiato molto bene i numeri di quelle terre, numeri di indecente povertà, di sfruttamento, di arretratezza. Eppure non credo abbiano mai provato l’ebbrezza, né la necessità, di sentirsi il “99%”, come i ragazzi di Occupy.
Penso alla mia città, Napoli. Dove, secondo le statistiche, la diffusa povertà ed il sistema criminale più oppressivo d'Europa non portano tanti suicidi quanto nella civilissima Nord Europa. Questo mi ha fatto riflettere a lungo. A leggere i numeri, conterebbe poco la mia esperienza personale, l'aver assistito a depressioni grandi e piccole, di amici o conoscenti, che si aggiravano per le strade con un volto quasi trasparente, inespressivo, con il tarlo dell'inutilità che iniziava pericolosamente a entrare nella loro testa. Questo per dire che ci sono forme di irrequietudine e di infelicità - ammesso che la felicità venga prima dell'uguaglianza - che non possono essere facilmente misurate.
Così come è insensato “raffinare” dal dialetto certe espressioni di saggezza popolare, combattere l'oppressore unicamente con la razionalità dei numeri è come masticare una lingua non propria. In ogni caso gli "strumenti di misura" spesso nascondono situazioni antropologiche complesse, che meritano di essere analizzate più nel dettaglio.
A volte occorre una certa dose di autismo politico e un affidamento spericolato al nostro istinto.
Antropologia del suicidio.
Ritorniamo con più ordine al tema iniziale della nostra discussione. Abbiamo detto che ci sono forme di irrequietudine e di infelicità - poniamo la felicità del individuo in cima alle priorita’ dell-individuo stesso - che non possono essere facilmente misurate.
In ogni caso, gli "strumenti di misura" spesso nascondono situazioni antropologiche complesse, che meritano di essere analizzate più nel dettaglio. L’antropologia che studia il gesto del suicidio dimostra che ci sono spazi di autonomia, all'interno della cultura dei popoli, dove i numeri non possono spiegare tutto, dove l'oppressore, e il suo computo razionale, non riesce a destreggiarsi agevolmente. Al contrario, in questi spazi di autonomia i gruppi minoritari possono apprendere nuove strategie di lotta, di resistenza attiva.
Nel suo celebre studio del 1897 Émile Durkheim aveva notato come nelle società protestanti - dove l'individuo è l’autore principale della sua Fede - il tasso di suicidi risulta sensibilmente maggiore che nelle società cattoliche - dove invece contano di più l'istituzione familiare, credenze e tradizioni comuni. Un sistema sociale organizzato ed efficiente di tipo anglosassone – dove, per dirla in linguaggio cinematografico, prevalgono “primi piani” e “interni”, dove cioè l’ego prevale sulla collettivita’– il legame che unisce l’uomo alla vita talvolta si allenta proprio perché il legame che lo unisce alla società è a sua volta allentato.
Al contrario, nelle società di tipo cattolico o mediterraneo – dove prevalgono “scene di massa” ed “esterni” –, l’assenza di un’organizzazione sociale strutturata modernamente può venire colmata da fenomeni che vengono solitamente stigmatizzati nella letteratura mainstream. Ad esempio, e semplificando: l'economia in nero, l'arte di arrangiarsi, il familismo amorale, il tifo organizzato, e via dicendo. Buona parte della ricerca "sul campo" che svolgevo insieme a gruppi attivisti in Sud Italia non faceva altro che confermare, in modi a volte sorprendenti, come questi fenomeni suppliscano alle inefficienze e alle lacune della media borghesia e della cosiddetta alta cultura. L’individuo può essere oppresso in tanti modi, e in tanti modi lasciato solo, oppure “raccolto” in forme di comunità, non per forza legali e regolamentate.
In ogni caso, la fantasia con cui l’uomo contemporaneo tenta di sfuggire alla disumanizzazione potrebbe portarci ad una considerazione positiva: nonostante la dittatura del consumo e del lavoro, nonostante la scomparsa di una autentica cultura popolare sostituita dalla sua parodia e da un mercato manipolabile, esistono ancora delle falle nel sistema, delle contraddizioni. Delle minoranze non addomesticabili. Che producono la propria cultura – perche’ darle il suffisso –sub? – e le proprie regole. Talvolta sfuggendo, non sempre coscientemente, ma comunque riuscendoci, al controllo dei modelli dominanti.
Come dicevo però citando la Sicilia di Impastato, ci sono forme di ribellione che non meritano di essere assopite nell’apparente senso di protezione di questo “presepe” antropologico. E infatti come sanno bene quanti di noi hanno provato a “fuggire”, a tentare altre strade, a emigrare, quelle stesse "reti di supplenza" che attutiscono l'alienazione del turbo-capitalismo, possono trasformarsi in maglie di costrizione. Soprattutto per colui che sceglie la rivolta individuale. Come muscoli che si calcificano e si fanno ossa.
Può sembrare un paradosso, ma talvolta proprio quel sense of dispair che ritroviamo nelle culture dove l'individuo è lasciato da solo con le sue paure, la sua solitudine, la sua disperazione, fornisce carburante per l'atto di rivolta. È un gioco molto complesso e dalle regole variabili: se troppo appagamento ammorbidisce, troppa miseria abbatte. Di troppa solitudine si può morire senza che nessuno se ne accorga, di troppa folla si può morire in piedi, ma senza aver fatto un solo passo.
Il suicida come soggetto agente.
Come posso sfuggire dunque – io che cerco una forma di rivolta completa, piena, aperta – al ricatto della razionalità dei numeri – idioma dominato dall’oppressore – e dell'irrazionalità del panico – idioma dominata dai media?
La figura dell’aspirante suicida ci insegna che la prima, completa, esatta unità di misura della rivolta è l'individuo: il suicida è un individuo prima che una vittima, un martire, o un terrorista. Nell’analizzare la sua figura non cercherò nemmeno lontanamente di giudicarlo con i parametri della morale, per quanto giudicare sia un atto necessario e inevitabile - e l’aspirante suicida è soggetto che giudica, dunque è attivo poiché, anche nel porre fine alla sua esistenza, egli compie comunque una scelta. Una scelta minoritaria: è quasi sempre solo. Usa se stesso come misura del suo dolore. Può scegliere di coinvolgere altri nel suo gesto, ma l'unità base del suicida è l'Uno: che giudica e decide. La solitudine del suicida è insieme lezione e monito.
Mi è capitato di lavorare con psichiatri specializzati nella prevenzione del suicidio, e la prima cosa che mi ripetevano è che non ha senso definire il suicidio come giusto, o cattivo, o immorale o qualsiasi altra cosa. È una scelta, non bisogna dimenticarlo mai, che ogni persona ha tutto il diritto di compiere. E non ha senso ricordare a qualcun altro l’inesistente dovere di "resistere" ad una vita che non vale la pena di vivere. Come scrive Salvatore Natoli nel suo L'esperienza del dolore, «il dolore e quanto di più proprio, individuale e intrasferibile possa darsi nella vita degli uomini», e solo chi ne è avvelenato è in grado di conoscerne l'entità e la portata. Posso sì augurarmi che una persona abbia valutato gli effetti delle sue azioni - prima di morire ma ancora di più durante la sua vita -, ma in definitiva credo che spetti all'individuo determinare quando e come porre fine alla sua esistenza. Ognuno ha la sua trincea e il suo orizzonte di diserzione.
Detto ciò, i problemi sorgono se si tenta di discutere la figura dell’aspirante suicida non più come soggetto passivo o sintomo della crisi - dunque con un'ottica piuttosto paternalistica: «cosa fare affinché il gesto non si ripeta» - , ma come soggetto agente nella crisi: «cosa fare di quel gesto?». O meglio ancora: «cosa fare per trarre sostanza politica da quel gesto?»
Un giorno, mentre cenavo con amici e si commentava le notizie del giorno, ecco che finiva sul tavolo il dramma di un pensionato che si era appena dato fuoco in piazza Syntagma, ad Atene. Uno dei presenti esclamò, di getto: «A questo ci ha ridotto l'impotenza politica: anziché dare fuoco a loro ci diamo fuoco noi».
La battuta inizialmente scorse veloce nella mia testa, salvo poi ritornare prepotente quando stavo stendendo questo pezzo. Innanzitutto, chi sono loro? Perche’ non gli diamo un nome e un cognome? E come affrontare loro disarmati – in tutti i sensi -, senza che questa sfida diventi ugualmente un suicidio? Forse è proprio in questa indeterminazione, in questa vaghezza, che nasceva la disperazione di quel pensionato: l’incapacità di attribuire ad un volto l’origine della sua sofferenza, della sua impotenza.
Sto sicuramente semplificando, ma nello scenario attuale non sarebbe inutile aggiornare quel termine, anomia, che Durkheim utilizzava per indicare la dissonanza tra norme comunitarie e l’esperienza della realtà: per usare una metafora, è come se il capitano di una nave si rendesse conto che seguire le regole di navigazione lo porterebbe, in una specifica situazione d’emergenza, ad affondare con la sua imbarcazione. È anomica una società ammalata delle sue stesse norme, che in tempo di crisi non riescono a fornire una via d’uscita per la salvezza o per la liberazione.
È anomico il capitalismo finanziario: costruito su regole schizoidi e senza morale, con una divisione del lavoro che continua, oggi come cento anni fa, a ridurre l’Uomo alternativamente in uno schiavo consapevole o in un’ameba inconsapevole. Privato delle grandi ideologie collettive ma ancora di più di una qualunque capacità di organizzare la sua liberazione, l'Uomo contemporaneo sembra trovarsi di fronte ad un unico «scenario di senso possibile»: quello della fede nella Tecnica. E’ stato certamente cosi’ per quindici, vent’anni, dal crollo del muro a quello delle Torri, e ancor di piu’ al momento del crollo delle dot-com e del sistema criminale dei mutui. Adesso anche la Tecnica, come ben sappiamo, sta lasciando sempre più perplessi. Ecco perché di fronte al depistaggio culturale e allo spaesamento politico provocato dalla Tecnica – quel “facciamo computer, non politica” – l'uomo rimane da solo col suo dolore, le sue taniche di benzina, le sue torce infuocate, le sue braci.
Qualcuno ha tentato di reagire con una provocazione. Unvolantino distribuito in questi mesi per le strade diNantes da un gruppo anarchico si rivolgeva così «agli aspiranti suicidi» e agli «sfiduciati dei cinque continenti»:
Voler fare il Passo Finale in solitudine è comprensibile, è umano. Ma farlo in compagnia è sublime, divino… Ad esempio, potreste ingoiare il vostro veleno solo dopo averlo inviato al deputato che ve lo ha fatto bere per anni. Volete ficcarvi del piombo nel cervello? OK, ma non prima di averlo sparato in quello del direttore di banca che vi ha rovinato. Se preferite tirare un cappio intorno alla gola, perché non farlo, in anticipo, con la gola del barone dell'industria che vi ha licenziato?
Riuscite ad immaginare cosa accadrebbe se anche un quinto dei suicidi di ogni paese esalasse il suo ultimo respiro con quello di un infame, di un potente? Forse noi troveremmo la forza per finire il lavoro che voi avreste generosamente iniziato. Vi supplichiamo, vi preghiamo... Non morite soli e ignorati. Scegliete una celebrità istituzionale e tirate le cuoia in tandem.
Bonzi o jihadisti?
Gli psichiatri vi diranno che l'arma del suicida è spuntata di ogni senso finalistico: la maggior parte delle persone che vogliono congedarsi dal mondo non cerca il gesto della morte in se, ma si trova ad affrontare un dolore emotivo dal peso insostenibile. L'aspirante suicida non ha più speranza in nulla - non in senso nichilista, ma semplicemente perché è così che egli si sente per la maggior parte del tempo - ed è talmente sopraffatto dal senso di impotenza che non è in grado di scatenarsi in alcun modo contro qualcun altro: egli si limita semplicemente a porre fine al suo dolore, attraverso la fine della sua vita.
Esistono, certo, moltissimi esempi di suicidio altruistico nella civiltà umana: i soldati che decidono di scagliarsi su una granata per salvare la vita ai propri commilitoni; le popolazioni tribali dove non è inusuale che le donne si uccidano per seguire il destino del marito morto in battaglia oppure, come indicato nel testo sacro del Dharmashastras, si gettino sulla stessa pira che consuma il corpo del compagno. C'è poi tutto il filone dell'immolazione come pratica rituale, come le decine di monaci buddisti che nel Vietnam del Sud dei primi anni Sessanta, seguendo l'esempio di Thích Quảng Đức, decisero di incenerirsi per protestare contro le condizioni umilianti imposte ai religiosi dal governo americano.
Ma in ogni forma di martirio – che si tratti del soldato che assorbe col suo corpo una deflagrazione destinata alla Bandiera che egli difende, o di Jan Palach che si bruciò per la libertà dei praghesi, o del kamikaze che colpisce a casaccio, o del suicidio tribale – c’è inevitabilmente una forte connotazione religiosa: v'è comunque fede nel Mistero, nel Trascendente, nel ciò che «verrà dopo» ma non potrà essere visto né goduto dal martire. Nel sacrificare se stesso per una missione più grande, per qualcosa a cui non potrà assistere, l'altruista che si immola in solitudine non è poi così meno bigotto del suicida per jihad. In ogni caso si parla di un Dio: del Dio onnipresente della Natura o – per sottrazione, in quanto morto – del Dio della Tecnica.
Ma noi abbiamo bisogno di guerrieri atei, non di martiri.
Abbiamo detto che la fenomenologia del suicidio per cause economiche non può essere affrontata con la razionalità dei numeri né con l’irrazionalità del panico; che la cultura dei popoli, la loro antropologia, offrono notevoli sfumature per definire i confini dell’oppressione, senza bisogno di ricorrere alla strumentalizzazione del suicida “in quanto vittima”. Ebbene prima e forse oltre la cultura c’è un’altra variabile più importante dalla quale l’attivista non può comunque prescindere: l’istinto individuale. Io sento su di me un'ingiustizia, profonda, e mi sento persuaso a porre fine ad una sofferenza, che sia solo mia o condivisa con altri. Sento un richiamo, forse minoritario, ma lo sento giusto e con o senza confronto con altri decido in che modo portare a termine la mia opera di reazione.
Come avrete forse intuito, c'è in questo ragionamento buona parte della mortale logica jihadista. È un rischio che dobbiamo correre. Per quanto infinitesimale nel grande magma del mondo, anche un gruppo di poche dozzine di persone si può arrogare il diritto di giudicare, e in base quella decisione scegliere di creare il proprio "spazio liberato", la propria resistenza attiva all'oppressione. Se pure alcuni di questi gruppi si trasformano in una bombe ambulanti, in aerei kamikaze, dobbiamo ugualmente difendere il principio secondo cui anche una sola persona indignata, anche l'1% di quel 99% indicato da Occupy, può dichiararsi stufo di stare a questo mondo e scegliere il modo per non esserci.
In definitiva, è forse proprio la dicotomiasolitudine/collettività all'interno della fenomenologia del suicidio che ci stimola e ci fa interrogare di più. Possiamo ritrovare in questo gesto solitario la negazione di qualunque utopia di persuasione e di liberazione comunitaria; al tempo stesso l'immediatezza, la compiutezza, la pulizia del gesto ci ricordano - con una sentenza senza appello, come una sveglia che non si spegne - che bisogna sapersi svincolare, quando occorre, proprio dal ricatto della collettività, se vogliamo raggiungere una piena e sincera liberazione individuale, noi che siamo ancora vivi.