In viaggio coi Librotraficantes


«
Lontano, lontanissimo, in mezzo al nulla è successo qualcosa».

- N. Scott Momaday

 

Nel marzo scorso ho avuto la fortuna di poter seguire la spedizione dei Librotraficantes, un gruppo di attivisti americani diretti in Arizona per protestare contro una legge che ha cancellato il corso di Ethnic Studies dai licei dello stato, nonché vietato l’insegnamento di numerosi classici della letteratura Mexican-American e mondiale: da The House in Mango Street di Sandra Cisnerosa La Tempesta di Shakespeare, che secondo i legislatori avrebbero instillato nei giovani del sentimento antiamericano e pericolose idee rivoluzionarie. 

Tony Diaz, quarantadue anni, insegnante, animatore culturale, mi aveva scritto una mail per invitarmi nella comitiva:«Quello che hanno fatto i Repubblicani in Arizona è un pericoloso precedente. Quel corso stava limitando il fenomeno della dispersione scolastica tra le minoranze etniche. La destra sta cercando invece di riconquistare la parte più razzista e intollerante del suo elettorato. Secondo loro, i  figli dei latinos dovrebbero studiare soltanto il mito ovattato dei Padri Fondatori… Dobbiamo farci sentire».

Non ero mai stato in Arizona. Tutto ciò che sapevo l’avevo letto in un bellissimo pezzo di Ken Silverstein per Harper’s, dove si raccontava di uno Stato pressocché in bancarotta, ossessionato da tasse e immigrati più che dal bilancio. Così mi sono aggregato a questi book smugglers, questi «trafficanti di libri» come li ha chiamati Diaz: una quarantina tra studenti, insegnanti, attivisti dei diritti civili, sindacalisti venuti un po’ da tutto il paese. Per una settimana, a bordo di un autobus, abbiamo attraversato le autostrade del Southwest. Da Houston, Texas, fino a Tucson, passando per città-simbolo della cultura fronteriza come San Antonio, El Paso, Mesilla e Albuquerque. Lo scopo dell’iniziativa era molteplice: sensibilizzare le comunità locali sul pericolo di una guerra tra culture. Organizzare lungo il percorso una serie di azioni simboliche: apertura di biblioteche temporanee con i “testi proibiti”, letture “sovversive”, dibattiti, incontri. E infine, gettare le basi per un movimento più vasto che unisca i latinos sotto una sola bandiera, per le prossime elezioni scolastiche locali. La risposta è stata calorosa. Ovunque siamo stati accolti da un pubblico attento e variegato – non solo Mexican-American – che aveva a cuore le sorti dell’istruzione per i suoi figli, e che da troppo tempo si sente politicamente “tradito” – o non sufficientemente difeso – dall’amministrazione Obama.

Ma i sette giorni trascorsi in compagnia dei librotraficantes sono stati soprattutto l’occasione per riflettere su cosa voglia dire «fare attivismo» oggi, e sul rapporto tra territorio e forme di attivismo possibili. L’autobus ha funzionato da vero connettore tra comunità: gli insegnanti provenienti da Houston incontravano per la prima volta quelli di El Paso – distante ben tredici ore d’automobile – e a loro volta gli attivisti di El Paso avrebbero mai incontrato quelli di Tucson senza quest’evento. La cultura americana, a causa delle immani distanze, è fatta di tante isole culturali, autonome eppure vivaci, con le loro specifiche caratteristiche, e quest’isolamento è qualcosa di inconcepibile per l’intellettualità europea.

Il Southwest è inoltre politicamente più variegato di quanto si possa credere. L’idea del Texas come un “vecchio gigante conservatore” non è per niente aderente alla realtà: se la parte settentrionale dello stato è un fortino repubblicano, le contee al confine col Messico sembrano in tutto e per tutto enclavi latine negli USA: la musica che si ascolta è messicana, così come è messicana la comida, la moda fra i più giovani, la classe imprenditoriale più emergente e persino la politica. San Antonio è il regno dei fratelli Castro, studenti di Stanford, uno sindaco e l’altro deputato. A El Paso, che è sorta adiacente al border, Obama è stato votato da oltre il sessanta per cento della popolazione. Houston, poi, è la prima grande città americana con una sindaca dichiaratamente lesbica.

Dopo El Paso abbiamo fatto tappa a Mesilla, New Mexico. Ospiti della scrittrice Denise Chavez. Mesilla era una cittadina polverosa e ordinata, dalla pianta a scacchiera, con case basse in stile adobe, senza spigoli vivi né pilastri in cemento armato, tinte di un bianco che quasi accecava. A decorare le porte di Mesilla c’erano vistosi fasci di peperoncino, detti restras, e nei cortili interni i cactus giganti, le yucca, le piante di mesquite. Ai tempi del Wild West Mesilla era famosa per le sue cantinas e i suoi festival, vi sostarono Pancho Villa e Billy the Kid qui fu condannato a morte. Oggi chi abita in queste terre ha il profilo bianco del borghese di successo o dell’intellettuale che cerca in modo di trovarsi felicemente fuori dalla Storia. 

Del resto l’intero New Mexico, con i suoi surreali spazi vuoti, è una località che sembra il teatro perfetto per la fine-dei-tempi: ci sono le più grandi riserve Navajo e Hopi della nazione, da sempre flagellate da alcolismo e prostituzione. Più su, in montagna, le comunità whites isolate tra le foreste con i loro fucili. Di là nel deserto, le tonnellate di cartucce per videogiochi Atari seppellite ad Alamogordo, nel 1983. Uno scenario da western post-nucleare che sarebbe piaciuto a Jodorowski.

Qui ho sentito dire spesso: «you can tell how fascist a country is, by looking at how people is scared by police». Puoi capire quanto un Paese è fascista guardando quanto la gente è spaventata dalla polizia. Ma la regola mi sembrava valesse soprattutto per quelli che non potevano fuggire in nessun altro posto, ad esempio i disoccupati ipnotizzati dalle slot machines disseminate un po' ovunque da uno Stato senza più un soldo.

Al contrario del New Mexico, l’Arizona si porta dietro da tempo immemore la fama di Hate State, roccaforte del più cupo estremismo conservatore, laboratorio del Tea Party, con un elettorato che odia tutto ciò che è “pubblico” e sente ancora nostalgia per le reaganomics. Un tocco di influenza creazionista mormone condisce l’atmosfera politica di questa fetta di USA. Eppure, a leggere le statistiche, l’Arizona non sembrerebbe questo right-wing desert come lo chiamava Silverstein: gli immigranti illegali sono il dieci percento della popolazione – un dato impensabile per qualunque paese europeo. In Arizona risiede la più grande comunità di lingua Navajo dei quarantotto stati contigui. Gli ispanici raggiungono il trenta percento.

«Tradizionalmente», mi raccontava Michelle Fealk, professoressa liceale di vent’otto anni con una grande passione per l’Italia, «gli abitanti di Tucson sono piuttosto moderati. L'immigrazione ha portato nuovi voti ai democratici. È nota poi la rivalità tra la progressive Tucson e la conservative Phoenix». Quando guidavo con una macchina in affitto nella zona intorno alla 4th Avenue si respirava un'atmosfera rilassata e vagamente familiare, tra gallerie d'arte e bar frequentati dagli immancabili hipsters.

Da qualche tempo avevo quasi dimenticato cosa volesse dire politica attiva senza dover stare per forza incollato su una sedia, di fronte a un computer. Poter intervenire, essere partecipe alle cose del mondo, e al tempo stesso poter sentire sulla propria pelle il contatto con un paesaggio aperto, arioso, per una volta non stretto entro i percorsi prestabiliti da polizie e gerarchie di partito: sensazione effimera, forse, ma straordinaria. È così utopico immaginare un attivismo che faccia del viaggio una parte integrante della propria strategia, della propria formazione?

Questo non vuol dire che i nuovi media non abbiano avuto un peso fondamentale nel viaggio. I caravanisti passavano ore  a “postare” foto e video sui loro profili virtuali. Tony Diaz era costretto a dare interviste via webcam ai giornalisti che non potevano raggiungerci fisicamente. Una coppia di freelance del Texas Observer, ipnotizzati dai loro iPad, a stento guardavano fuori dal finestrino. Certi segnali ti riportavano con i piedi per terra: eravamo in una terra di spazi immensi, certo, ma anche di immense costrizioni commerciali. Ogni stop per rifocillarci doveva passare necessariamente per grandi catene, e persino i più collaudati pacifisti tra noi sembravano non vaccinati da una palese, fastidiosa addiction tecnologica. Sotto molti punti di vista il progetto librotraficantes era la celebrazione dell’iper-americanità: una “festa mobile” dove si discuteva, si scherzava, ci si confrontava senza chiedere a quale “chiesa” ognuno appartenesse, ma in definitiva da “subalterni” rispetto a certi automatismi consumistici, dettati in parte proprio da quella inevitabile rozzezza dello spirito di frontiera.

Poi ci capitava di essere accolti nelle case, bellissime, di alcuni tra gli scrittori “vietati”,  per esempio la villa di Rudolfo Anaya sulle colline in periferie di Albuquerque, e quando trovavamo quelle tavolate già imbandite con cibo messicano strepitoso, e frutta fresca, e tequila per tutti, spariva ogni “critica della critica”. Rimanevo ugualmente con un dubbio: cosa c’è di più bello, per uno scrittore, d’essere censurato dal potere? È giusto salvare i libri, sempre e comunque, da roghi e Inquisizione? I libri possono essere una fottuta mercanzia come altre, e pure poco democratica: l’autore/editore produce, tu consumi. Non è detto che ci sia qualcosa che venga trasmesso, aldilà delle nude parole e del loro effetto placebo: suoni, visioni, odori e sensazioni… La magia dei libri ha qualcosa di seducente, ma il feticismo ideologico per la carta stampata ha qualcosa di sinistro. "Se il canto non saccheggia una stazione, a che serve la corrente alternata", scriveva Majakovskij. Mi verrebbe da ripetere la domanda per parole come «Cultura» o «Conoscenza», che spesso vengono munite di maiuscole, ma non di sostanza politica per difendersi.  Forse si dovrebbe leggere di più in compagnia d’altri.

Cinque anni fa m’era capitato di visitare le dodici twin cities che punteggiano i tremila chilometri di confine tra Messico e Stati Uniti. Fu come vedere tante Berlino anni Sessanta traslocate nel deserto: per ogni città che sorgeva sul lato americano, ve n'era un'altra, speculare, sul lato messicano. Il lato americano è tutt’ora militarizzato, razionalizzato, controllato in ogni centimetro di spazio, ma con un'economia in fermento, dove si costruisce, si assiste ad un importante via vai di studenti, di poeti e drop-out. El otro lado sembrava invece già rassegnato a diventare narco-stato, un supermarket per giovani yankee in cerca di alcool facile e Viagra senza prescrizione, con la polizia notoriamente corrotta e culti misteriosi che prendevano sempre più piede. Il lato Nord del confine non può vivere senza quello Sud, e viceversa. Le maquiladoras di Juarez campano di capitale statunitense, ma i più sgargianti tra i giardini di El Paso seccherebbero in due giorni, senza la manodopera clandestina. La creatività dei privilegiati ha bisogno dell'ispirazione dei poveri. C'è un'ibridazione, tra le due culture e le due economie: come avviene tra i membri di tribù isolate, quando tutto intorno non v'è che deserto.

Molti dei miei compagni di viaggio erano discendenti di braccianti messicani arrivati negli USA durante il Bracero Program (1942-1965), probabilmente la più vasta violazione di diritti umani mai compiuta in tempo di pace. Questi schiavi – centinaia di migliaia di stagionali ogni anno – vivevano in condizioni talmente disperate e umilianti che ci sono voluti decenni prima che i figli si liberassero del senso di vergogna dei padri, e si presentassero come soggetto politico-culturale autonomo: non yankee, né messicano. Chicano, appunto. Il boom negli anni Sessanta e poi nei Duemila della loro letteratura deve a questi traumatici ricordi la sua forza motrice, e l’incessante ricomposizione di un puzzle identitario è alla base del successo di autori tanto amati dai latinos come Sandra Cisneros, Dagoberto Gilb, Rudolfo Anaya, Lorna Dee Cervantes, Gloria E. Anzaldúa.

«Radice» è stata forse la parola centrale di questo viaggio, ed ha una connotazione complessa. Significa «base» e «origine», dunque qualcosa che evoca un senso di fissità. Ma è da «radice» che deriva il termine «radicale»: il voler mutare lo stato di cose esistente, partendo proprio dalle sue fondamenta. È la lotta ab origine del Male. Non una strada certa, definita, ma un percorso. Un viaggio, un’avventura. Forse la cultura chicana è proprio questo: un’avventura radicale.