Io brucio: da un’inchiesta in Tunisia

In Tunisia, partire dal paese si dice « bruciare » la frontiera.
 
Nel mese di maggio 2011,  un gruppo di compagne e compagni venuti da Italia, Francia, Germania ed altri paesi europei vanno a fare inchiesta militante nella Tunisia post-insurrezionale, dalle città autorganizzate del sud alle spiagge del nord da dove partono i migranti per raggiungere Lampedusa, liddove si va a « bruciare ». La realtà è che, in seguito allo sconvolgimento del 14 gennaio, la caduta di Ben Ali susseguitasi all’occupazione della Kasbah I - l’esplosione delle forze - il governo di transizione così come i media nazionali ed internazionali, cercano di dare della situazione una visione pacificata. Di contro, numerosi gruppi ci parlano della necessità di portare avanti il processo rivoluzionario, di approfondirlo, spingerlo oltre la caduta dei simboli. Oltre l’ordine imposto. Oltre la normalizzazione. Torna la repressione. Questa volta, attraverso una strategia di guerra a bassa intensità, fatta di poliziotti in borghese che pestano i manifestanti alla minima mossa. Le tensioni politiche si acuiscono, si dà la caccia all’attivista, giovane soprattutto, cioè i diplomati disoccupati, studenti e provenienti da ogni parte delle campagne, rimasti a Tunisi dopo la fine dell’occupazione della Kasbah, proseguendo la protesta.

Violenza improvvisa ed incontrollata, nel bel mezzo di Avenue Bourguiba - il centro nevralgico della città – e assembramenti si compongono e si scompongono come sciami intelligenti.

In questo quadro, incontriamo gli attivisti ed attiviste della resistenza.
Si è ampiamente scritto riguardo all’infame politica governativa, agli arresti, agli stupri, e più recentemente, nel quadro del tentativo di presa del potere da parte dei salafisti neoliberali, alla punta della contro-rivoluzione attuale - in totale impunità - che si incrocia violentemente, nutrendosene, alle rivolte degne di coloro che rivendicano la comune autodeterminazione, oltre la divisione tra Stato e religione. Questo non può essere l’orizzonte del processo rivoluzionario tunisino.

Gli episodi più recenti di violenza verso giovani donne nelle loro università – il cui sindacato UGET  (Unione Generale degli Studenti Tunisini) oggi ha vinto – lo dimostrano. Kahena mi racconta che Amal Aloui, lo scorso 7 marzo, si arrampica sul tetto della sua università per strappare la bandiera nera del lutto posta lì dai salafisti, i quali vogliono imporre il niqab ed impedire a studentesse ed insegnanti di far lezione. Amal viene gettata in terra e viene presa a calci sul ventre da più uomini contemporaneamente, tanto che, oltre alle emorragie conseguenti a tale bestialità, non potrà più generare : ambivalenza paradossale interna alla logica stessa della cattura e dello sfruttamento capitalistico dei corpi, che si organizza intorno alla riproduzione e alla generazione di questi stessi.

Ancora, l’insulto della poliziotta donna a Mohamed Bouazizi è un’offesa morale, poi tradotto mediaticamente in un gesto fisico : uno « schiaffo » alla dignità del maschio. Mohamed brucia dunque la frontiera della sua vita, così come Amal viene bruciata nella sua possibilità di concepire vita.

Ciò dimostra la pervicacia dei media nello sfigurare la rivoluzione tunisina, e la doppia immagine di quella che è stata chiamata in Francia ed in Italia « Primavera araba », per immunizzarsene, in spirito neo-colonialista. In realtà, quello dato dalla poliziotta è uno schiaffo simile a quello che le ministre tecnocrati (da Merkel a Fornero) stanno dàndo a generazioni intere di lavoratori qualitativamente e quantitativamente femminilizzati (Morini 2010), messi a valore nel capitalismo cognitivo (Vercellone, 2006; Fumagalli, 2007) in Europa. Lo storico sfruttamento delle donne si allarga alla società intera, e si approfondisce all’interno dell’economia informazionale, cognitiva, affettiva e relazionale, per la quale poco importa che il lavoro salariato venga trasferito offshore nei paesi meno sviluppati o che venga precarizzato nella stessa Europa.

Se osserviamo l'anno 2011, notiamo che le rivolte spesso anticipano i momenti di crisi della finanza globale, e questo si può vedere sovrapponendo i grafici dell'andamento di varie fasi critiche ed alcuni diagrammi delle rivolte : il caso della Tunisia ed i suoi effetti di contagio positivo dal sud al nord del mediterraneo lo dimostrano ampiamente. L’analisi della transnazionalizzazione delle lotte connessa alla globalizzazione della crisi (si leggano i numerosi interventi di Anna Curcio e Gigi Roggero a questo proposito) fa rimontare molto indietro nel tempo la genealogia della sommossa. All’opposto, la genealogia della sua rappresentazione articola un’efficace retorica finanzista (per usare il termine di Franco Berardi) ad un immaginario post-colonialista. Se le ragioni della rivolta in Tunisia sono le stesse che aprono la crisi in Europa –  che si possono riassumere alla vita messa interamente al lavoro, produzione di vita catturata e trasformata immediatamente in valore -, la ratio coloniale si nutre  dell’inoffensivo fantasma del selvaggio ad-domesticato quindi femminilizzato. Al di sotto ed attraverso questa immagine, la linea antagonista dei sommovimenti sociali dell’ultimo anno (Kasbah, piazza Tahrir, Siria, ma anche Val Susa, attraversando l’onda del movimento Occupy) si traccia attraverso l'attiva produzione di un comune politico fondato sulla pratica dello stare insieme che si fa irriducibile processo costituente.

 

La doppia immagine vede quindi un piano egemone – il piano della crisi - che cerca di schiacciare mediaticamente un piano « minore », moltitudinario, composto dalle linee - alternative, antagoniste e trasversali - della « plebe » ;  linee che compongono una comune potenza generativa : la potenza insomma, del « ventre » che sfonda da dentro, la sua rappresentazione.

Ringrazio Nina G. Salomé, Kahena Sanaâ e Haithem Ben Farhat per la loro generosità nelle nostre conversazioni, da una sponda all’altra del mediterraneo.