Le Regole! Va bene combattere il Tiranno, ma guai a toccare le Regole. Le Regole sono i chicchi del rosario al quale si aggrappano i martiri del berlusconismo, mentre i suoi pretoriani li gettano nella fossa coi leoni. Da una parte abbiamo un potere che corrompe giudici, paga servizi segreti deviati, usa tv e giornali come carri armati, assolda qualunque firma e volto compiacente per scatenare condanne infami anche sulle manifestazioni più innocue.
Dall’altra, anime belle che si accapigliano su chi deve fare miglior figura e non guastare «una festa colorata, goliardica, fantasiosa, pacifica», come dicono i capetti del «Popolo Viola». Ha scritto uno di loro, dopo che due ragazzi, ad Arcore, sono stati arrestati per non essersi limitati a sventolare mutandine: «Io, non-violento, sto dalla parte delle regole». E ovviamente, il PD: «Chi li conosce quelli, mica sono dei nostri, sono provocatori!».
Mi pongo la stessa domanda che mi sono posto all’indomani del 14 dicembre, quando una parte non indifferente di quei giovani senza futuro e umiliati dal mercimonio del Parlamento avevano messo a ferro a fuoco la Capitale, finendo per ciò isolati dalla politica tutta e da buona parte della stampa democratica: ebbene, dopo diciassette anni, ha pagato la strategia delle persone per bene? Ha reso la Casta più rispettosa dei suoi sudditi? Ha forse ridotto il ricorso a mezzi impropri da parte del Governo, alla diffamazione dei media?
Dico una banalità che però sfido a contraddire: quando si combatte un tiranno le regole, lo si voglia o no, sono quelle del tiranno. Una volta approvate, le leggi ad personam che il tiranno si è fabbricato diventeranno sacre anch’esse. E piu le leggi saranno ingiuste, piu nessuno saprà come respingerle.
No alle molotov e alle P38, ci mancherebbe: basta già un pugno a Capezzone per gridare al golpe. Ma è violenza anche la messa in atto di un serio boicottaggio? L’hackeraggio? Il sabotaggio? Neanche questo è stato proposto, dal Popolo Viola, dal Palasharp, dai giornali resistenti e dalle donne che «dicono basta» con tante carinissime foto. Poi certo, capita che i soliti sconsiderati mettano in pratica il precetto mazziniano – laddove diceva che non portano lontano né il pensiero senza l’azione né l’azione senza il pensiero –, e questi abili oratori «kennediani», «indignati» di mestiere, vanno nel panico, si agitano, balbettano. Si dissociano.
Ha commentato Giulio Cavalli, attore da due anni sotto scorta minacciato alla mafia, anche lui presente ad Arcore: «C’è qualcuno che si ostina a pretendere una ribellione composta per non rompere gli equilibri come se il problema fosse una persona e non un modo… (…) Ero sicuro che non solo i nemici ma anche (e soprattutto) i falsi amici più moderati avrebbero usato quel manipolo per raccontare una manifestazione “maleducata”»
Insomma il discorso non è da che parte stare, ma «come» e «con chi» stare da quella parte. Comprendiamo il perché di una sinistra invaghita dei giudici e della Costituzione, visto lo stato d’emergenza perenne in cui viviamo. E i lupi che rischiamo di trovare andando fuori dal seminato: mediocrissimi columnist «terzisti», per i quali ogni nefandezza va concessa al sovrano; i rifondaroli zdanoviani tipo Daniele Sepe, con il quale litigo perché, a suo dire, anche chi applaude per l’arresto di un camorrista è da iscrivere alla lista degli «sbirri del Capitale»; e certi teorici narcisi, che da vigneti e spiagge assolate invocano una lotta armata fuori tempo massimo, senza mettere mai sul piatto le proprie contraddizioni.
Ma andrà pur fatto un discorso sull’insipienza di chi fa opposizione solo dicendo «basta» con quelle carinissime foto, o raccomandando alle sue platee di applaudirlo, comprargli libri e cofanetti DVD in offerta speciale. È quello che ho tentato di dire più volte ad un mio coetaneo scrittore, a cui voglio bene, che non poteva limitarsi a ripetere: «Ogni lettore in più è una sentinella di libertà», come se solo quello fosse l'unico modo per resistere: perché volente o nolente anche lui faceva parte di un circuito mediatico, di un sistema editoriale piuttosto cinico, e prima o poi qualcuno avrebbe interpretato il suo ammonimento come una furbata della solita sinistra veltroniana. Una sinistra che pensa solo a promuovere il suo narcisismo e le sue merci, come i venditore di materassi sulle reti Mediaset, e poi abbandona e chiama «imbecille» chi mette in gioco la sua faccia, e la sua fedina penale, contro il «regime» di cui parlano le sue star mediatiche – e non si sa se ne parlano per convinzione o se per averne l’esclusivo copyright.
Del resto se a Londra la sede dei Tories è stata sfasciata dai figli delle periferie degradate, e il Mediterraneo ci eccita per le sue rivolte popolari, che prospettive può dare agli ultimi, ai disperati, un pensiero d’opposizione guidato soltanto dai blog, dai vignettisti, dalle mutandine sventolate, dalle videoconferenze? A questo punto l’identificazione tout-court di una parte di questa piazza post-ideologica con le «l’ordine» e le «leggi», ha il sapore non di una resistenza democratica, ma di un mutamento antropico, epidermico, definitivo.
Facendo un salto nel passato, nel 1956, a Partinico, un signore di nome Danilo Dolci, infrangendo le regole, mise in scena un’azione scandalosa, chiamata «sciopero alla rovescia». Di che si trattava? Centinaia di disoccupati si organizzarono per riattivare pacificamente una strada abbandonata dal Comune mafioso. Non un’idea innocua, tuttavia: i lavori furono fermati dalla polizia e Dolci, con alcuni suoi collaboratori, venne arrestato. A difenderlo, nel tribunale penale di Palermo, c’era il grande giurista Piero Calamandrei, che in una delle sue più famose arringhe spiegò come le regole, le leggi, altro non sono che «formule», nelle quali «bisogna far circolare il pensiero del nostro tempo, lasciarci entrare l'aria che respiriamo, metterci dentro i nostri propositi, le nostre speranze, il nostro sangue, il nostro pianto. Altrimenti, le leggi non restano che formule vuote, pregevoli giochi da legulei; affinché diventino sante esse vanno riempite con la nostra volontà».
Ecco: le adunate piene di gente indignata, arrabbiata, convinta dei propri mezzi mi rendono felice. Cosi come le tutte le manifestazioni colorate, goliardiche, fantasiose, pacifiche. Eppure vorrei che quella stessa gente riempisse, anzi, anche solo spruzzasse, con un po’ di sudata volontà quelle parole con le quali decora il proprio «impegno civile» nei profili di Facebook. E dopo aver fatto fronte comune, a difesa delle regole che sono state violate dal Potere, capisse e reagisse verso quelle regole che il Potere stesso ci ha già inculcato per castrarci. Quelle che difendono un incessante conformismo, un meccanismo perverso di privilegi e sfruttamento.
Paolo Mossetti
- Pubblicato anche su Nazione Indiana.