Il cosiddetto referendum di Marchionne ovviamente non era un referendum. Non era nemmeno un ricatto, era piuttosto una tortura. Un ricatto è limpido: qualunque cosa tu scelga ti schiaccia. Un ricatto che si fa chiamare referendum schiaccia egualmente, ma ripete che in quanto soggetto libero la responsabilità è tua. “I compagni litigano, i compagni si bisticciano”, dicevano i lavoratori da Mirafiori nei giorni scorsi. Litigano e si bisticciano perché la Fiat per settimane ha trasferito su di loro la responsabilità della crisi. Fiat non stava chiedendo un voto. Fiat stava delineando il futuro come una tenaglia: sussistenza o dignità. Sussistenza o dignità – scegliete. Avete a disposizione una o l'altra.
In un mondo libero una domanda del genere sarebbe stata a pieno titolo giudicata come il tentativo d'umiliazione di un potere sadico. Solo un potere sadico potrebbe emettere due differenti condanne a morte e poi sorridere alla libertà di scelta. Il NO dei lavoratori sotto ricatto ci dice che anche sotto scacco la vita si ribella. Solo gli eroi rifiutano la sopravvivenza per non perdere la dignità. Nella vita ordinaria dunque proliferano gli eroi.
Un risultato affine non era scontato. Storicamente le dittature son fiorite sempre nei tempi di crisi, figlie della viltà che cerca protezione nella prepotenza. Ma oggi la prepotenza è nuda, e da Tunisi a Torino cresce dal basso la fiducia costituente. Siamo all'inizio di un cambio complesso che sarà lungo, concitato ed anche difficile ma che è già iniziato, un cambiamento alla cui base vi è la tanto la ribellione quanto il desiderio di espressione, entrambe in una cornice differente rispetto al passato: è una ribellione che non cerca più protezione né rappresentazione, cerca autogoverno.
I tumulti che oggi pervadono l'Europa contengono un humus costituente ed il ripudio completo dell'esistente. L'esistente si è fatto tenaglia. Ha detto bene Elena Monticelli: il ricatto è l'elemento regolatore dell'economia e della politica tutta. Dagli studenti alle fabbriche, da Tunisi a Torino, il ricatto è diventato lo strumento di governo della crisi sociale. È un richiamo forzato all'obbedienza e legittimato dalla fine delle alternative possibili. Così la Fiat perseguita i suoi lavoratori affinché producano di più, li chiama a fare pipì due volte al giorno anziché tre, a correre lungo la linea anche nei giorni di malattia per sostenere con le loro schiene la competitività d'azienda. L'aumento della produttività tuttavia non risolve granché in un mercato saturo. Al contrario, esaspera contraddizioni già acute, aumenta con l'iperlavoro la disoccupazione, produce merce innecessaria. Insomma, l'aumento della produttività poteva essere stimolo all'economia quando il mercato era in espansione, ma oggi la crescita è diventata declino e da quella nascono solo disoccupazione, sovrapproduzione e debito.
Oggi le sacche di debito pensate per lubrificare il sistema sono diventate più grandi del mercato. La speculazione sul debito ha orbitalizzato perdite e profitti, mettendo la gran parte dei paesi occidentali a rischio di crollo del debito sovrano. In sostanza: la manifattura è in crisi, la finanza è in crisi, ed il programma di austerity pensato per intervenire nei bilanci mondiali genera altra crisi. Non c'è alternativa, ci dicono. Questa è la tenaglia.
Questa tenaglia si espande a tutti i settori della vita pubblica in un vero e proprio, famigerato comunismo del capitale. Così nei giorni scorsi Guidi, membro di Confindustria, ha dichiarato che:
Nei prossimi quattro o cinque anni sono a rischio il 50% dei posti di lavoro nel settore manifatturiero. Se saranno meno a perdere il lavoro saremo stati fortunati. [...] Ogni tanto mi chiedo come può pensare un giovane di 19-20 anni di trovare lavoro, non conosco nessuno che pensi di assumere un ragazzo che abbia solo la laurea triennale.
Le sue parole sono state in larga parte ignorate dai media, ma si intrecciano ad un paese con tasso di disoccupazione giovanile pari quasi al 30%, con un diritto allo studio radicalmente ridotto, con un processo di deindustrializzazione già in fase avanzata. In questo contesto il futuro per intere fasce sociali diventa un binario morto. Nessun futuro per voi, e questo è quanto.
L'assenza di alternative entro la struttura politico-economica del mercato chiude come un nodo il futuro ed annoda in una risacca segmenti ampi del tessuto sociale. Lì prolifera la rabbia. La Tunisia ne è un esempio chiaro, trasformata negli ultimi anni in una cul de sac sociale. Negli ultimi anni la Dysneyland del turismo occidentale è diventata una prigione a cielo aperto per tunisini e migranti, muro alle aspirazioni, spazio di delega per le frontiere europee esternalizzate ove contenere tutte quelle generazioni africane desiderose di accedere a un'istruzione o all'occupazione dopo secoli di impoverimento coloniale. Quando il prezzo del pane è salito, la cul de sac è diventata una gabbia senz'aria, fucina di inquietudini e repressione.
“Scendi in strada e guarda”, cantava El General in un appello a Ben Ali: “la gente sta impazzendo e i poliziotti diventano mostri, ormai sanno usare solo i manganelli. [...] Parlo con dolore, viviamo come cani. Presidente, il tuo popolo sta morendo!”, gridava El General prima di essere arrestato.
Frustrazione e compressione travalicano i confini. I contesti sono differenti ma le dinamiche non cambiano. Il modello Marchionne è un altro esempio. Il modello Marchionne accelera i ritmi, allunga i tempi, triplica gli straordinari obbligatori, toglie i giorni di malattia pagati. Insomma, accelera un corpo di lavoratori già mediamente anziano, e mentre lo fa impone il divieto di sciopero, sostituisce i rappresentanti RSU con i rappresentanti aziendali, minaccia di licenziamento lo sciopero. Ecco che le tenaglie del mercato si fanno dittatura nella vita e negli incubi di tutti. Laboratorio di cattività che ribolle di rabbia.
Se dovessi scriverlo in una riga direi che la rabbia è precisamente figlia della cattività. È lo slancio con cui la cattività reagisce all'oppressione. La risposta alla cattività non è scontata. Le disfunzioni generalizzate nella società occidentale sono precisamente sintomi dell'adattamento ad un sistema dysfunctional che genera malattia negli individui deformandone le relazioni in violenza. Al contrario, la rabbia è desidero di riscossa. La rabbia eleva l'uomo vessato all'altezza della morte per sfidare il potere. In questo slancio sprigiona una forza maestosa, intimidatoria. Ma lo slancio nasce dall'esasperazione e in quanto tale brucia. La rabbia brucia. Così bruciava Mohammed Bouazizi, venditore ambulante di frutta incendiatosi davanti alla Prefettura tunisina lo scorso dicembre. Mohammed bruciava in un'esplosione di dignità indignata e disperata ed incendiava la rivolta.
Generalmente si dice che la rabbia sia un sentimento secondario che nasce da paura e dolore. Angoscia e vessazione, questo il suo humus. Da qui la rabbia si diparte come linguaggio non verbale che esplode con la simultaneità delle parole oppresse. Coagula la vita tutta per esprimere il rimosso e poi esplode, esplode e si sgonfia di spossamento e di stanchezza. Perciò la rabbia è una passione che rende “l'uomo padrone di se stesso e schiavo della fortuna”, scriveva Spinoza. Perchè la rabbia è per definizione incontrollabile come i suoi risultati. Perciò Gandhi, teorizzatore dell'ahimsa mal tradotto in Occidente, considerava la rabbia come un sentimento da proteggere. La rabbia non va compressa né censurata, diceva, la rabbia va custodita. Solo così può diventare motore di un nuovo potere costituente. In altre parole, la rabbia deve farsi linguaggio.
È da decenni che il linguaggio è spazio di conflitto. Già negli anni cinquanta la Scuola di Francoforte parlava di una industria culturale divenuta “fabbrica dell'anima” attraverso una serialità capace di meccanizzare addirittura la spiritualità. Il mercato ha tentato di rubare l'anima al mondo. Forse non vi è riuscito, ma ha utilizzato il linguaggio come mezzo di assoggettamento per poi annettere l'espressione umana a sè.
La riforma dell'istruzione infondo è proprio questo. Il suo fine è annettere l'accademia al mercato come fabbrica di pensiero sino ad aiutare il ripiegamento funzionalista delle masse all'austerità. Il Bologna Process in questo senso rappresenta la volontà esplicita di educare le moltitudini alla dittatura, definanziando le scienze umane e chiedendo ai più brillanti di divenire strumenti del capitale. Trasformare in contabili i poeti, questa la sua missione. Come cambierebbe il mondo se gli economisti studiassero poesia, verrebbe da dire. La riforma dell'istruzione è dunque né più né meno che un laboratorio antropologico dalle finalità ipertrofiche: vuole generare consenso e partecipazione felice ad un sistema dittatoriale in crisi. Certo, questo avviene da molti anni. Ma ora il sistema non è più inclusivo. È una risacca di crisi.
Perché dunque parlare di rabbia. Perché la repressione felice degli ultimi trent'anni ha tolto le alternative alla rabbia. Il mercato ha assoggettato il linguaggio e lo ha reso produttivo, e nel contempo ha diffuso il proprio: un linguaggio di competizione, guerra e violenza. In uno stato di cattività questo linguaggio incendia una rivolta cieca ma senza uscite. Ecco perchè dobbiamo ricreare il linguaggio.
Immagina, scriveva qualche giorno fa Taoufik Ben Brik:
“Immagina... Tunisi risonante di mille dibattiti all'aperto, come a Hyde park corner [...]. nell'aria, ce ne sono di colori, e di parole. il paese ha il fascino di un grande caffé, di un grande teatro, di un hammam. senza pena, nè vergogna, tutto può essere detto. in tutte le città e in tutti i villaggi si ascoltano finalmente chiacchiere e cicalecci, pettegolezzi e baccano, barzellette e battute. il riso avvolge qualsiasi parola, si discorre per le strade, i viali, i suk...basta andare in qualsiasi bar, è come sentirsi su un palcoscenico, a destra e a sinistra o al centro, ovunque lo sguardo incontra gente che parla e si dà delle arie. Un apprendistato alla fraternità”.
Immagina, scrive Taoufik Ben Brik, se le parole fossero libere. Immagina, se fiorissero relazioni affettuose. Immagina, se potessimo guarire la terra. Immagina.
L'espressione delle moltitudini non è affare semplice né secondario. Al contrario, il linguaggio è l'unica possibilità di unione e di coesione. Le moltitudini non hanno unità. Questo trentennio le ha lacerate, sfibrate, divise, addirittura delegittimate come potenzialità creativa. Ed ancor più, mai prima vi erano state al mondo moltitudini con tale responsabilità. Il comunismo del capitale ha mangiato la terra, i suoi frutti, le relazioni umane. Ha creato risacche morte ove rinchiudere il dissenso. Ha diseducato alla politica e all'amicizia. Ha scoraggiato la fiducia in sé. Perciò le moltitudini “abbisognano di una forma di unità, di un Uno”, scrive Virno. E però oggi “questa unità non è più lo Stato [...]. L’unità non è più qualcosa (lo Stato, il sovrano) verso cui convergere, come nel caso del popolo, ma qualcosa che ci si lascia alle spalle, come uno sfondo o un presupposto”. Le moltitudini non hanno più nulla a cui riferirsi. Non vi sono deleghe, mercato, popolo o stato, perchè sono guasti, ciò che ne resta è in decomposizione. Non hanno qualcosa a cui tornare, hanno solamente se stesse, un mondo da curare ed un futuro da rigenerare. Come?
Secondo Virno la risposta arriva dal 77. Il movimento del 77 per la prima volta ha sottratto la propria intelligenza al mercato trasferendola al comune. La sua novità era una nuova compagine fatta di studenti lavoratori e di lavoratori studenti. La conoscenza non era più separata dalla società, si intrecciava all'autogoverno, sottraeva allo stato il monopolio della decisione e della produzione per creare nelle comunità il proprio pensiero, il proprio linguaggio, il proprio affetto, sino a renderli potenzialità costituenti. Il linguaggio diventava allora uno spazio di creazione, di art/tivismo, di immaginazione sociale e di terapia. L'espressività affettuosa della moltitudine era la terapia della moltitudine, e la moltitudine curava il mondo.
Ecco allora ancora una volta il ruolo dell'intelligenza collettiva e della conoscenza. Ecco il ruolo dell'affettività. Le moltitudini di oggi sono l'alba. La loro alba è fatta di parole, affetto, creatività condivisa. Così l'intelligenza frammentata e precaria può coordinarsi ed intrecciarsi sino a divenire soggetto costituente.
È così che l'Europa e il Mediterraneo negli ultimi mesi hanno risposto all'austerity. In Italia i primi sono stati gli studenti. Insieme alla Fiom, e poi la Tunisia. E ancora prima la Francia, l'Inghilterra, la Grecia. Ovunque ha parlato la rabbia, ma non solo. I tumulti hanno fatto una cosa complessa, in realtà. In Italia una generazione nata negli anni della repressione felice è riuscita a riterritorializzare l'intelligenza collettiva nel comune. Le scuole e i monumenti occupati sono diventati laboratori di linguaggio il cui referente non era più lo stato ma le comunità stesse. Questo, infondo, il significato del corteo che il 22 dicembre non si dirigeva più verso il parlamento bensì verso i quartieri invisibili. “Voi soli nella zona rossa e noi liberi nella città”, hanno detto. Così l'azione politica sottraeva la vita al potere delegittimandone l'esistenza tout court. Era l'umiliazione dei potenti. Era l'alba. Era l'esodo.
"Chiamiamo esodo la defezione di massa dallo stato, l'alleanza tra general intellect e azione politica, il transito verso la sfera pubblica dell'Intelletto”, scriveva Virno nel 1993. L'esodo è una “sottrazione intraprendente” intesa come disobbedienza radicale e collettiva alle leggi dello stato e del mercato. È una sottrazione intraprendente nel senso che è costituente, è “congedo fondativo”. Non si tratta più di confrontare il potere su un terreno di oppressione militarizzata e demoniaca. Si tratta di delegittimarlo e di sottrarre le comunità al suo controllo attraverso strumenti di autogoverno autonomo, consapevole ed espressivo.
Una cosa simile era avvenuta in Argentina nel 2001 quando i lavoratori hanno occupato le fabbriche. Hanno ripreso in mano la produzione ed esautorato il potere, del resto non serve che a dare ordini. Lo stesso avveniva negli alberghi, occupati e gestiti dalle assemblee dei camerieri. E parimenti avveniva con il denaro, sostituito da nuove monete del quartiere o ancorpiù dallo scambio e dal baratto. Allora le lezioni di danza si scambiavano con la cucina di pranzi o cene e la crescita dei figli avveniva in comunità. Fiorivano le assemblee di quartiere. A voi la crisi, noi balliamo.
Chiaro, la risposta è semplice. Ma la crisi incalza e c'è più fantasia nell'anima collettiva che nel mercato. Non ha più senso seguire il suo lessico, né le sue tenaglie. Torniamo nelle strade. Occupiamo le università, occupiamo le fabbriche. Rigeneriamo il linguaggio, rigeneriamo i quartieri. È l'alba.