Il passaggio dell'uragano

NEW YORK - Nel seminterrato di Harlem dove vivo con la mia ragazza e le sue due coinquiline – lei messicana ma cresciuta in Texas, terra generosa di calamità legate al vento e alla pioggia – ci siamo preparati alla visita di Irene facendo un salto al liquor store. Due bottiglie di vino italiano – ho cucinato io, ovvio –, una di whisky e una di tequila purissima.

Così, con una scorta di superalcolici, molti newyorkesi sono sopravvissuti alle lunghissime ore di solitudine forzata che la Natura gli ha imposto. Il momento dell’assalto ai supermercati è, da quanto ho potuto capire, quello più stressante di ogni inondazione. Si sono scatenate le casalinghe ispaniche, che facevano incetta d’acqua minerale – galloni e galloni –, di cibarie, di dvd e soprattutto di torce elettriche – andate letteralmente a ruba. Qualcosa che mi suonava nostalgicamente familiare: ricordo ancora i venti chili di zucchero e olio che mia nonna, a Napoli, portò a casa non appena Andreotti aveva annunciato la partecipazione italiana alla prima Guerra del Golfo.

Scherzi a parte, sarà pur vero che una sequenza di avversità naturali a così breve distanza – prima il terremoto e poi, dopo appena quattro giorni, l’uragano – non si era mai vista a New York. Ma parlare, come molti hanno fatto con malcelata eccitazione, di «Apocalisse in arrivo», mi è parso quantomeno esagerato.

Certo, i numeri sono da rabbrividire: una popolazione evacuata pari all’intera città di Firenze, ben novemila voli cancellati tra il JFK, Newark a La Guardia, una rete di metropolitana che serve in media cinque milioni di persone sospesa per ore, diecimila tonnellate di sacchi di sabbia allineati lungo tutta Downtown – sì, Wall Street come il compound di Gheddafi, e meglio ancora come il fortino dei Tartari buzzatiano, in attesa del Muenstro, come lo chiamano i quotidiani in lingua spagnola. Narrano le cronache che l’ultimo evento del genere, nella Grande Mela, risale al 1991 – pensate: Jordan giocava ancora nei Bulls e Giuliani non era ancora sindaco.

Ma è soprattutto il blackout tecnologico che ha terrorizzato i newyorkesi. Se visitate un qualunque Starbucks all’ora di punta, vi troverete di fronte una popolazione intensamente concentrata sulle proprie addiction tecnologiche: coppie di fidanzati, mamme e figli, mariti con le proprie mogli, tutti impegnati a digitare, ascoltare musica, mandare mail, lanciare uccelli grassocci da catapulte virtuali, e questo prosegue senza tregua anche in metropolitana, nei parchi pubblici, in auto, nei ristoranti. L’idea di rinunciare a tutto questo, di rimanere – udite, udite – «senza niente da fare» per due giorni, ha messo nel panico anche i più stoici dei manhattinites.

Provate a dirglielo agli americani del Sud. Un uragano “serio”, come mi spiega Zelene – che nella sua vita ne ha visti parecchi, e di quelli che hanno portato davvero morte e distruzione su larga scala – è di Categoria Tre o Quattro. Dalle parti di Houston o New Orleans di solito arrivano volentieri alla Cinque, e fanno visita almeno una volta all’anno. In Texas, ad esempio, tanto lunghe ed intense sono le giornate di tempesta, che la gente è abituata fin dalla nascita a fare a meno delle più essenziali concessioni della modernità: niente elettricità, niente acqua corrente, niente internet, nessun negozio aperto, nessun treno o autobus funzionante. E così anche per una settimana di fila. Nove mesi dopo, curiosamente, gli ospedali registrano una straordinaria impennata di bimbi battezzati proprio con i nomi di quelle calamità: Andrew, Ike, Katrina, e così via.

Il mostro Irene era degradato al Livello Uno, ma tanto è bastato a molti quotidiani italici per citare i più celebri disaster movies hollywoodiani. Non vedevano l’ora – lo ammettessero con franchezza – di vedere la megalopoli invasa da tsunami alti come Godzilla, e centinaia di storie strappalacrime da raccontare, per rimpolpare le cronache estive.

Certo, Obama e Bloomberg sapevano bene che era stata la rovinosa gestione di Katrina a scavare politicamente la fossa a George W., altro che guerra in Iraq o crisi economica. E hanno voluto mettere le mani avanti. Le zone più a rischio, in particolare alcune località di Long Island distanti duecento chilometri da New York, sono state svuotate a dovere. Nessuno ha trascurato di fasciare col nastro adesivo le finestre – seppur con l’imbranataggine tipica dei fighetti cittadini – e le scorte di cibo che non verrà mai consumato hanno portato gioia alle tasche di Warren Buffett. Sul lungomare di Brighton Beach, cuore della 'Little Russia' newyorkese, era senz’altro suggestivo, per me abituato al massimo ai famigerati “cavalloni” del mare calabrese, sentire una volante sparare dal megafono: «Attenzione! Un pericoloso uragano si sta avvicinando. Evitate di uscire di casa questo weekend».

Ma in una città afflitta da forte disoccupazione, dal boom di sgomberi forzosi, dai molti fallimenti immobiliari, e da un notevole tasso di depressione e nevrosi, la voglia di diventare comparse involontarie sul set di un blockbuster si è annacquata nel disinteresse. Molto più difficile è da mettere in scena il terrore psicologico di fare a meno della routine alienante, della dipendenza da Ipod e tv satellitare, da aperitivi e dalla stessa idea di “libertà individuale” che New York garantisce.

 La realtà è che ci voleva una calamità naturale per costringere diciassette milione a restare a casa, a cercare una connection per qualche grammo di marijuana in più, a premunirsi di argomenti interessanti per lunghissime cene, ad eccitarsi per interminabili chiacchierate che solo qualche giorno prima sembravano improponibili, ad annoiarsi persino, e in definitiva costringerle, queste persone, a passare più tempo con i propri simili.

Paolo Mossetti

 

- Pubblicato anche su Loop e Liberazione (31 agosto 2011) col titolo Il passaggio di Irene tra Apocalisse, alcolici e noia.