Irene

Il passaggio dell'uragano

NEW YORK - Nel seminterrato di Harlem dove vivo con la mia ragazza e le sue due coinquiline – lei messicana ma cresciuta in Texas, terra generosa di calamità legate al vento e alla pioggia – ci siamo preparati alla visita di Irene facendo un salto al liquor store. Due bottiglie di vino italiano – ho cucinato io, ovvio –, una di whisky e una di tequila purissima.

Così, con una scorta di superalcolici, molti newyorkesi sono sopravvissuti alle lunghissime ore di solitudine forzata che la Natura gli ha imposto. Il momento dell’assalto ai supermercati è, da quanto ho potuto capire, quello più stressante di ogni inondazione. Si sono scatenate le casalinghe ispaniche, che facevano incetta d’acqua minerale – galloni e galloni –, di cibarie, di dvd e soprattutto di torce elettriche – andate letteralmente a ruba. Qualcosa che mi suonava nostalgicamente familiare: ricordo ancora i venti chili di zucchero e olio che mia nonna, a Napoli, portò a casa non appena Andreotti aveva annunciato la partecipazione italiana alla prima Guerra del Golfo.

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