Sirene

1.

L. sentì le mani pesanti di J. sulle natiche, mentre la fotteva, ma lei già pensava ad altro. O almeno di questo era sicuro J., mentre ancheggiava dietro di lei come un pendolo, senza vero impegno. L'attenzione di J. era tutta per la crepa sulla parete di fronte a lui, che prima o poi avrebbe raggiunto la compagna all'angolo opposto del muro.

C'era qualcosa in quella parete scrostata che attraeva J. molto più delle grazie di L, - infondo anche lei distratta - dando all'amplesso l'impressione tipica di una prova teatrale tenuta a un'ora troppo tarda, quando le battute vengono meno e allora si accentuano i gesti.

Per un istante, una crepa nel muro incontrò i pensieri distratti di una teatrante annoiata, senza piacersi e senza brillare.
Così com'era cominiciato, senza fare rumore, l'amplesso finì.
 

2.

Il tè bolliva. J. si trascinò su una sedia, accese una sigaretta, aspirò il fumo e tossì un paio di volte.
A un certo punto nella vita di J. qualcosa era irrimediabilmente cambiato, con la noncuranza tipica dei disastri silenziosi, che travolgono ogni cosa e lasciano intatti gli oggetti; e dal momento che era ormai del tutto disabituato alla vita si era creato dei binari lungo i quali lasciarla scorrere docile per sopportare l'attesa, fatta di piccoli gesti metodici, uguali ogni giorno.
Fottere L., guardare il mare dalla finestra e preparare il tè erano solo alcuni di questi.

"Se sei così convinto di aver visto una sirena, e di essertene innamorato, perchè non prendi la tua bagnarola e vai a cercarla?" - aveva un giorno obiettato L. , con uno sguardo ironico e infinitamente triste. J. aveva bofonchiato qualcosa, tossito un paio di volte, ma alla fine era rimasto in silenzio.
L. lo aveva fissato dritto negli occhi, a lungo, ma J. non aveva ricambiato il sorriso.

Guardò il mare dalla finestra e il telo di plastica che copriva la sua bagnarola, in fondo alla spiaggia. L. era seduta ancora nuda sul letto, ma di lei si era già dimenticato.
Per quanto L. incrociasse l'attesa di J. pochi minuti al giorno - di quel vivere a vuoto, diceva lei - si era docilmente piegata al rituale e ne costituiva una piccola parte senza avanzare pretese maggiori.  
Il suo ruolo era quello di farsi fottere da J. e guardarlo poi mentre preparava il tè, e ormai le stava bene così. Le loro esistenze si toccavano solo in quel momento, poi proseguivano con l'indifferenza cortese degli sconosciuti, fino al giorno dopo, e ancora.
Ma solo per compassione, si diceva, e forse per abitudine. O compativa l'abitudine di J.?
E non arrivando mai a capo di questo pensiero aveva smesso di darsene pena.

Solo ogni tanto L., quando voleva mostrare il suo risentimento a J., osava protestare.
Ma la protesta della comparsa di una vita non può far certo molto rumore, e allora si limitava a fissare J. con quel suo sguardo - lo stesso di quando gli aveva detto "perchè non vai a cercarla?".
E si godeva le labbra serrate di J., e il suo silenzio.
 

3.

L. intanto era riversa nel letto.
Con gli occhi chiusi cercava di concentrarsi per sentire la polvere che si posava.
Forse in quel preciso momento stava fioccando come neve tutt'intorno, una neve triste, e nessun bambino ad addittarla col naso schiacciato su un vetro appannato. Quando chiudeva gli occhi e acuiva i sensi le sembrava di poterla sentire danzare.
Posarsi piano, sul letto, sul tavolo.
Sulle sue gambe, sui seni.

Si addormentò, e fece un sogno.

Nel sogno L. sentì le mani pesanti di J. sulle natiche, mentre la fotteva, ma lei già pensava ad altro. Immaginava di camminare su un grande prato, scalza. Quel pensiero la metteva a suo agio. Camminava a lungo, dimenticando poco alla volta. Non c'era niente oltre al prato – nessun albero, nessuna casa – e si sentiva così bene. Camminava a lungo sapendo che non avrebbe incontrato anima viva, laggiù, perchè lo aveva svuotato di tutto.
Secoli fa qualcuno aveva calpestato quel prato tenendola per mano, ma poi si era allontanato, attirato da altri canti ammalianti che lei non riusciva ad udire.
Era rimasta immobile, come una comparsa minore di cui il regista si è poi dimenticato, tutto preso da una storia che andava avanti senza di lei.
Quando J. uscì dal bagno L. stava coccolando gli ultimi strascichi di fantasia.
J. si fermò un istante, interdetto. Alla fine si arrischiò a chiedere un
“Stai bene?”
“Uh, sì” - rispose lei “normale. Stavo solo pensando”
J. annuì, quindi mise su l'acqua per il tè. Quando fu pronta, prese due tazze e le riempì fino all'orlo. L. non capì subito. J. esitò un istante, poi le avvicinò una tazza.
“Per me?”
“Per chi altri?”
L. rimase attonita. Era la prima volta che il rituale veniva modificato, anche di un niente, ed ora erano entrambi a disagio.
J. accennò un sorriso stupido.
“Avanzava dell'acqua” - aggiunse subito, come per scusarsi.
La fronte di L. si corrugò diffidente,  ma poi il sorriso di lui la tranquillizzò. Era davvero un sorriso ridicolo – il sorriso di un uomo che non aveva mai avuto niente a che fare con i sorrisi, e ne aveva imparato il gesto come un animale addestrato, ora lo replicava con l'ingenuità di uno scolaretto che attende dalla maestra un cenno di approvazione.
L. capì tutto questo e per un istante provò qualcosa di ancestrale e materno, come un ricordo di tenerezza. J. si era davvero disabituato alla vita, ma si ostinava a fare come i bambini che vogliono giocare un gioco a ogni costo, senza prima averne imparato le regole.
Si strinse nelle spalle, e poi.
Poi il sorriso di una donna che cammina scalza su un prato fiorì di fronte a quello di un uomo disabituato alla vita, e L. si chiese se davvero non avrebbe mai incontrato nessuno, laggiù.
“Dovrebbe succedere qualcosa, prima o poi” sfuggì detto a L.
Ma non successe nulla.

L. si risvegliò di colpo, ma non aprì subito gli occhi. Sgranchì le dita cercando il prato sotto i suoi piedi. Quindi ascoltò con maggiore attenzione, provando a indovinare dai suoni dove si trovasse. Sentì il letto duro sotto la schiena, e poi un granello di polvere posarsi sulla punta del naso. La danza era ripresa, nella sua dolce, esasperante lentezza.
Si irrigidì, serrò le labbra come in un bacio, e si lasciò seppellire.
 

4.

Quanta attesa può sopportare un uomo?
J. camminava verso il mare. Il sole colava a picco come la sua bagnarola.
Già, la sua bagnarola. La povera L. non avrebbe mai potuto capire, perchè non si era mai innamorata di una sirena, tanto per cominciare. E soprattutto, non aveva mai dovuto aspettarne una. Cosa poteva saperne? Per questo non capiva. J. era troppo pesante per affrontare il mare. J. poteva solo aspettare.
Scese i gradini che lo separavano dalla spiaggia, quindi si avvicinò cauto alla riva.
La marea stava cominciando a salire, inghiottendosi poco alla volta la battigia. Le orme che aveva lasciato al mattino erano cancellate in alcuni tratti, come se un personaggio triste fosse emerso per un poco dall'acqua, e dopo aver camminato qualche metro avesse semplicemente cambiato idea, tornando sui suoi passi.

E anche oggi sono triste, intrappolato.
E' strano come riesca a essere triste e intrappolato allo stesso tempo. Ogni tristezza ha le sue radici in una mancanza... e nonostante tutto, quel che resta è sufficiente a riempire la mia vita fino a paralizzarmi.
Il fatto è che ciò che mi manca, semplicemente, non lo posso più trovare. Almeno prima potevo brillare per una sola porzione di cielo... mentre ora mi chiudo come se mi fossi dimenticato di tutto... come se mi mancasse una direzione, e mi intrappolassi cauto nel mio non bastare a me stesso.
Ho passato troppo tempo ad aspettare il momento giusto, fino a dimenticarmi come fosse fatto, quel dannato momento.
E sono intrappolato, perchè poco alla volta si è portato via tutto il resto. Si è portato via tutto il senso, lasciandomi solo gli oggetti. E cerco cerco cerco tra tutti gli oggetti la vita che mi è stata nascosta come in un gioco di bambole russe.
C'era la mia tenerezza, sotto il cuscino. E l'ironia dietro lo specchio del bagno e l'ambizione e l'onore, sotto il telo dove tenevo la mia barca. C'era la voluttà appesa come un quadro sulla parete, la rabbia tra i coltelli della cucina...
E poi qualcosa di simile all'amore, tra le bustine del tè, che ci era finito quasi per sbaglio, quasi ridendo, dove meno te lo saresti aspettato.
Ogni giorno strofino tutto quanto come una lampada magica, nella speranza che passarmi un coltello tra le mani possa farmi tornare in mente la rabbia. O che a forza di fissare quella parete scrostata riesca a sorprendervi un po' del mio desiderio, celato.
Guardo a lungo il telo di plastica che copriva la mia barca, e il mare, ma non risveglia in me più nessun fremito. Mi sorrido allo specchio senza provare simpatia per me stesso.
E prendo il tè ogni giorno alla stessa ora, per non mancare al mio appuntamento romantico.
Ma resto sempre da solo, fino a che la bustina, fradicia, non sprofonda.
 

5.

Dal diario di L.

Anche oggi non è successo niente, o meglio, niente di diverso da quel che succede sempre.
La malattia di J. si fa sempre più acuta, anche se con una lentezza tale che spesso quasi dimentico come non sia sempre stato così.
Ha quasi smesso di parlarmi, è come se non mi riconoscesse più. All'inizio sospettavo lo facesse apposta, ma credo che ormai se ne sia talmente convinto da essersi davvero dimenticato chi sia. Non parla più con nessuno, non parla mai, e continua a bere.
Comincia a bere al mattino e si trascina per casa tutto il giorno, assecondando le sue manie compulsive. Lucida coltelli fino a che un qualche sprazzo di verità non lo sorprende, e passa oltre deluso. Le sue reazioni sono sempre più lente, si perde continuamente. Fissa inebetito ogni cosa gli si pari davanti: lo specchio, la finestra, persino quando scopiamo non fa altro che mormorare parole sconnesse mentre cerca le crepe sulla parete.
Ma quel che davvero non sopporto è che sia ormai troppo pazzo per accorgersi di quanto lo odio. Per l'ennesima volta mi chiedo cosa mi costringa ad assistere alla deriva di una vita di cui non mi importa più nulla. Non che mi sia mai aspettata nulla da lui, in cuor mio, anche se forse... ma infondo sapevo che tipo d'uomo era. Il tipo d'uomo che un mattino torna ubriaco fradicio da chissà dove, blaterando di aver trovato chissà quale dannata sirena e di essersene innamorato. E poi la malattia, e i silenzi sempre più lunghi.
Eppure ogni tanto sembra riconoscermi, quando mi fa avvicinare. Gli prendo le mani e gli dico J., guardami, guardami, J., ti prego, dov'è la tua sirena? Perchè non vai a cercarla? Non ti ricordi? E di me non ti ricordi? Chi stai cercando J., ti prego... ma lui guarda oltre e non mi risponde, non mi risponde più.

E mentre scrivo è seduto sullo sgabello, a fissare sgomento una tazza di tè che, come al solito, alla fine non berrà e io butterò via.

 

6.

Lo ha fatto ancora, mi ha guardato ancora con quello sguardo carico di tutto il risentimento del mondo, ma non ricordo più chi sia nè cosa voglia da me. Il suo viso si è dissolto tra i risvolti della mia mente e affiora a tratti come un leviatano per spaventarmi, con quel suo sguardo terribile, con le sue eterne minacce. A volte non mi sembra nemmeno così duro, mi sembra solo... qualcosa che non riesco a capire, come se perennemente in bilico nella sua testa si rincorressero parole che muoiono sempre prima di sfuggirle... per poi sorprendersi di quanto silenzio riesce a produrre, di quale cimitero ha creato con i suoi silenzi.
Ma da me, cosa vuole?

Gli occhi di J. guizzarono veloci per la stanza. Languirono le crepe del muro, il cuscino sul letto e il piccolo quadro... si avvicinò alla parete e cominciò ad accarezzarla, dall'alto verso il basso, come ci si accarezza lo stomaco quando si ha mal di pancia, come si consola un bambino che ha pianto troppo. Accarezzava la parete respirando piano, mentre la sua attenzione si ridestava di colpo e una nuova ricerca lo sorprendeva con tutta la speranza che anche le imprese più disperate si trascinano dietro.
Restò ad accarezzare quella parete, mentre L. lo guardava farsi sempre più lontano, e avrebbe giurato di avergli sentito mormorare, nel delirio che se lo portava via, “ti troverò...”.