La crisi che inizia simbolicamente il 23 settembre del 2008 con la caduta di Lehman Brothers si presenta come la seconda grande, come una specie di prova apocalittica: o riusciamo a superarla oppure ci affonda collettivamente nella miseria. Ci si ripete con petulanza che i paesi che fanno le riforme necessaria supereranno il prossimo giro, e quelli che non le faranno rimarranno al margine della storia in una specie di strada senza uscita.
D’altra parte la lettura delle informazioni economiche è ferraginosa, al di là di una grande complessità puntano semplicemente a mettere il cittadino in una posizione di spettatore che non capisce bene quello che sta accadendo, quindi collabora perché non gli rimane altro rimedio.
Quel che è curioso in questa faccenda della crisi è la sua semplicità analitica, non appena si lascia da parte il linguaggio tecnico. La crisi fa della realtà un videogioco al quale staremmo tutti partecipando. Nel videogioco c’è una sceneggiatura, ci sono dei buoni e dei cattivi, e sappiamo che alla fine ci saranno vincitori e perdenti. Quando la cancelliera tedesca Merkel, per esempio, ci assicura che esiste una battaglia dei politici contro i mercxati, diretta a ristabilire il primato del politico sull’economia, sta disegnando alcuni dei personaggi principali: politici e Stato (i buoni) sono obbligati dai mercati e dagli speculatori (i cattivi) a introdurre riforme imprescindibili nel gioco. In fondo ci sarebbe una specie di colpevolezza generalizzata: abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità. Siamo tutti un po’ cattivi.
Non smette di sorprendere il fatto che la metafora centrale esplicativa sia quella della crisi intesa come una specie di malattia dalla quale si può uscire andando avanti, oppure morire. E’ una vecchia metafora che rimonta alla medicina greca che venne poi incorporata in diversi saperi, fino al sapere economico. Come applicare questa metafora al capitalismo globalizzato il cui fondamento non può essere malato, dal momento che esso non ha fondamento? Il capitalismo globale funziona come un disboscamento del capitale, come una fuga in avanti possibile perché tra potere e capitale c’è un reciproco spingersi oltre? Non ha senso allora accusare gli speculatori di essere responsabili della malattia. Un professore che forma futuri speculatori, cioè il professore di etica dello IESE (Business School di Navarra), lo dice con chiarezza: “La speculazione è essenziale nel capitalismo. Gli speculatori sono gli avvoltoi che svolgono la funzione utile di eliminare gli animali moribondi.”
Ha poco senso anche la pretesa che lo stato ci possa aiutare. Lo Stato non è separato da una specie di angelica autonomia, ma è direttamente coinvolto nella globalizzazione neoliberista. Non c’è abdicazione dello Stato, ma implicazione totale. La collaborazione tra capitale e potere va molto al di là degli aiuti milionari alle istituzioni bancarie fallite.
La crisi come operazione politica
Il capitale finanziario ha creduto che lo spazio tempo globale generasse denaro semplicemente con il movimento del capitale. Ma non è così. Non esiste un mercato finanziario mondiale capace di espandersi in modo integrato e flessibile grazie alla crescita della spesa pubblica e delle innovazioni finanziarie. Il risultato finale è sempre lo stesso: l’incendio del capitale fittizio, l’esplosione della bolla. Più concretamente. La crisi finanziaria si colloca questa volta al livello degli stati. La Grecia è stato il primo paese attaccato. Il funzionamento è semplice. Le banche e i gruppi finanziari internazionali prestano nuovamente denaro agli stati che falliscono come lo hanno fatto precedentemente con il settore bancario e le imprese private, e si assicurano la copertura mediate piani di austerità imposti e vigilati dagli organismi internazionali, e possono inoltre permettersi di dar vita a una nuova bolla attraverso la speculazione con i buoni che lo stato deve necessariamente emettere sul mercato internazionale per far fronte al suo fallimento. La crisi nelle sue diverse tappe va adottando la forma di un vero e proprio saccheggio gestito da autentici criminali dal colletto bianco. Questa crisi che siamo stati costretti di sopportare, non è tanto un sinonimo di ristrutturazione ma piuttosto un vero e proprio saccheggio. Prima di tutto saccheggio della gente che non può pagare la ipoteca né vendere la sua casa, e che può solo abbandonarla come sta accadendo negli Stati Uniti. Per continuare saccheggio dei salari, dei fondi pensione e anche dell’economoia inte3ra di un paese. La conclusione cui giungiamo non può essere più chiara: la crisi, in modo paradossale, non è il momento del fallimento del capitalismo ma il suo momento di maggior successo. Se cominciamo ad abbandonare la nostra condizione di cittadini e la smettiamo di credere nel discorso della crisi, la crisi simostra in se stessa comeun processo di pura e semplice espropriazione della ricchezza collettiva.
Il nuovo contratto personale e la guerra
La crisi consiste poi in una situazione sfavorevole per la maggioranza che è stata costruita politica, e che certamente si auto presenta come un fatto naturale. Descriverla come una forma di accumulazione primitiva di capitale è in gran parte vero, ma è insufficiente.
Se la crisi, o per meglio dire questa crisi globale ha importanza, è perché in essa, e grazie ad essa, si mette in marcia un nuovo contratto sociale. Questo nuovo contratto sociale è quello che da diritto a partecipare alla mobilitazione globale che produce il mondo, più precisamente, questa realtà pienamente capitalista senza esteriorità che è il nostro mondo.
Il contratto sociale che il movimento operaio ufficiale accettò e che funzionò fino alla fine degli anni settanta, era molto chiaro: pace sociale in cambio di denaro. Dopo la sconfitta operaia alla fine degli anni settanta, il nuovo contratto sociale si individualizza completamente dato che ora si rivolge a ognuno di noi individualmente. Il contratto sociale si converte in contratto personale. La sua formulazione è molto chiara: “la vita in cambio della impiegabilità assoluta.” Nell’epoca globale si può soltanto vivere, e vivere significa avere una vita, se questa vita che abbiamo è il supporto di un nuovo modo di essere: la impiegabilità più assoluta. La precarietà si fa esistenziale. In ultima istanta il nuovo contratto personale ti riconosce per quel che sei e che solo puoi essere: (un) capitale umano. La soppressione degli accordi e la riforma del mercato del lavoro fino alla flexisecurity va in questo senso. Però è qualcosa che va molto oltre la antica sfera dellavoro. Il nuovo contratto personale ratifica il fatto che la vita è il campo di battaglia perché il mercato ha travalicato il piano del mercato. Adesso la impiegabilità assoluta non è un fine in se stesso, ma il mezzo che serve a realizzare la massimizzazione della competitività. Competitività significa autovalutazione quantitativa per gestire il proprio sforzo e così poter ottimizzare i benefici. Realtà e capitalismo si avvicinano come non avevano mai fatto prima, e la vita costituisce il luogo della loro intera fusione. Parziale e rassicurante è il discorso sulla mercantilizzazione o sulla privatizzazione di fronte a un fenomeno che cambia sia la soggettività che la realtà medesima.
Il progetto della modernità implicava, prima di tutto, la possibilità di auto istituzione di una società che non tiene a disposizione istanze trascendenti capaci di legittimare l’ordine. Questa auto istituzione fu teorizzata dal punto di vista della politica (Hobbes e il suo contratto sociale) e dal punto di vista dell’economia (Smith e il mercato): Questi ambiti erano gli unici dai quali, data la crisi dei modelli assolutisti sembrava possibile difendere l’ordine. IL contratto sociale di Hobbes obbligava alla sottomissione, certo, chiudeva la coscienza morale nella sfera privata, però salvava la vita dato che lo Stato, che rendevamo possibile con la nostra rinuncia all’autodeterminazione, esorcizzava la guerra. La paura della morte e la ragione ci spingevano ad accettare il patto. Il mercato per parte sua, era secondo Adam Smith non solo la vera rappresentazione della società ma anche il principio organizzatore di una società pacificata che non aveva alcun bisogno della politica. Il mercato libero fondato sullì’egoismo personale era capace di generare il benessere generale. Il nuovo contatto personale che si istituisce nella epoca globale combinerebbe entrambi i modelli in una maniera originale. “Il democratico” e il mercato, la politia e l’apoliticismo si unirebbero nella nuova figura di questo cittadino che è la sua vita in proprietà, e che in questo modo si iscrive nella mobilitazione generale. Senza dubbio il nuovo contratto personale nega apparentemente l’obiettivo che Hobbes che Smith condividevano: istaurare un fondamento dell’ordine. La impiegabilità assoluta come modo di essere, la vita intesa come massimizzazione della sua profittabilit, l’io concepito come una marca commerciale tutto questo implica una umiliazione permanente al di là della quale ci può essere solo la pura arbitrarietà e la violenza. Ma attenzione, non siamo tornati allo stato di natura, non si tratta della guerra di tutti contro tutti. Adeesso possiamo chiarire meglio lo statuto del nuovo contratto. Il nuovo contratto personale è la consacrazione dell’arbitrarietà nel suo senso più pieno. Cosa è la impiegabilità assoluta convertita in condizione dell’esistenza? Con questo si mostra che la arbitrarietà esercitata sotto la forma di violenza (monetaria militare) il potere nella sua pura arbitrarietà tiene paradossalmente un fondamento che è perfettamente definito. Diciamolo in altra maniera.
Il fondamento o principio dell’ordine globale è la guerra. La mobilitazione globale è la guerra contro di noi e questa guerra organizza il mondo.
Il cittadino come unità di mobilitazione
Si può dire che se la lotta di classe, l’antagonismo operaio gestito dai sindacati di classe, costituiva il motore, e l’elemento coesivo della società industrialem, adesso è la guerra gestita da parte dello spazio democratico che realizza quella funzione. Si tratta di una guerra mai dichiarata che non appare mai direttamente come tale. La guerra sociale che si fa contro di noi si presenta sotto forma di misure economiche, riforme politiche e anche interventi umanitari… sempre necessari e sempre per il nostro bene.
La guerra è in definitiva il nome di questa mobilitazione globale delle nostre vite che lentamente ci distrugge. In verità non c’è distinzione tra economia e politica, per cui è sbagliato pensare di salvare la politica per poter controllare l’economia. La mobilitazione globale, come la realtàè che essa produce, è un fenomeno totale che non si lascia ridurre. Lo spazio democratico che unito al potere terapeutico incanala la mobilitazione generale, non può situarsi pertanto sul piano della politica. Per questo la figura del cittadino che continua a essere l’interlocutore del discorso politico democratico, rimane ridimensionata. Il cittadino, spinto dalla crisi, firma il contratto personale che lo inserisce nella mobilitazione globale, però questo inserimento lo trasforma profondamente. Il buon cittadino non è solo colui che si comporta in maniera civica e che vota, ma è colui che è disposto a fare della sua vita un continuo investimento capitalista nel pieno senso della parola. “Avere una vita” significa investire denaro, sforzo e tempo nella gestione della propria vita, riconvertirsi permanentemente. Cittadino è colui che si adatta alle esigenze della realtà e sa convertirsi in un autentico pezzo della realtà. Non è esagerato affermare che cittadino è colui che non è padrone della sua vita, ma suo schiavo. Questa conversione in unità di mobilitazione finisce non appena si manifesta un barlume di noi. Il noi dell’antagonismo operaio e il noi delle lotte per il riconoscimento, seppure non è scomparso, è stato svuotato di futuro. Però questo non futuro non è liberatore, ma è ripetizione di quel che già conosciamo.
E senza dubbio il capitale mentre ci fa la guerra, e farci la guerra significa convertirci intimamente in capitalismo, ricostruisce forzatamente un “noi”. Il noi che nasce dal malessere sfugge a una logica della visibilità, irrompe improvvisamente e si nasconde. Se dall11 settembre la violenza è stata essenzialmente di matrice terrorista, la violenza sta cquisendo giorno dopo giorno un carattere sempre più sociale. Finora la violenza globale era filtrata soprattutto da uno stato guerra che aveva segnalato il terrorista come il nemico da combattere. Con la crisi attuale, come già abbiamo detto, il capitalismo trionfa perfino nel momento stesso in cui costruisce il suo niemico nterno. Il conflitto che serviva da funzione di ordine si converte, in un rumore di fondo. Il rumore di fondo, l’uomo anonimo e il suo malesse, è il nuovo grande pericolo. Sono nemici tutti quelli che non sopportano che la loro vita sia schiacciata dalla mobilitazione globale. Nemici inultima istanza siamo tutti. Con ragione l’oracolo di Davos riunito nel suo rifugio svizzero ha avvertito poco tempo fa: “la severa crisi economica potrebbe creare reazioni sociali violente.” Questa è la grande paura. Che questo rumore di fondo sovrasti la musica, che la disperazione si converta in collera. Che questo noi, in silenzio e nella notte, finisca per rovesciare completamente la figura diurna del cittadino. Loro hanno il giorno noi abbiamo la notte. Il cittadino al quale i politici si rivolgono perché stringa la cintura nella crisi, non esiste in quanto tale. E’ una entelechia, un espediente retorico per veicolare un discorso di sottomissione che permetta di prolungare il disboscamento del capitale. Il cittadino è stato ridimensionato come pezzo essenziale della mobilitazione sociale. Ci chiamano in causa come cittadini quando in verità vogliono che siamo solo unità mobilitate. E’ ora di abbandonare questo involucro vuoto, questa figura retorica dalla cui bocca parla solo la voce del potere. Come cittadini, agendo come cittadini, abbiamo perso la guerra fin dall’inizio. E se dunque la smettessimo di essere cittadini?
L’inutilità dell’argomentare
Giunti a questo punto l’abisso si apre sotto i nostri piedi e un demonio ci sussurra: “Avresti il coraggio di abbandonare il tuo carcere?” Smettere di essere cittadini è una follia, dato che, se ci riuscissimo tutta la società si venderebbe al ribasso, dice qualcuno. E’ assurdo e anche reazionario, tu lo puoi dire perch non ti giochi nulla. C’è molta gente al mondo che vorrebbe essere cittadino enon può esserlo. Difendere il cittadino significa difendere lo stato del benessere e così via…
Potremmo opporre molti argomenti. In questo parole non si nasconde l’impasse nel quale ci troviamo e la operatività della stessa idea di intervento politico nel senso della trasformazione sociale? Forse si dovrebbe cominicare col riconoscere che il discorso della sinistra haperduto ogni credibilità e che per questa ragione, al fondo di questo tipo di frasi si annida la impotenza. Non è un caso che quando la sinistra ha poco da apportare, anzitutto perché non sa andare oltre le categorie della politica moderna inpiena crisi, senta la necessità di ricoprirsi con il manto della moralizzazione.da una certa rifondazione etica del capitalismo fino all’ideologia della decrescita. E così potremo continuare, però la questione continua a porsi. In verità tutte le argomentazioni che potrebbe avanzare servirebbero ben poco, Perché come ribattere a una posizione che sta dentro i limiti di quello che si può e si deve pensare. Discuterla significa rimanere chiusi anche nelle prigioni del possibile, rimaner chiusi come una mosca morta nel cristallo della realtà. C’è unicamente una via: uscire. Uscir dalle sicurezze mediocri che ci attanagliano, dalle verità semplici, dai dubbi. Salire dall’autoinganno e dalla propagazione dell’inganno. Uscire da questo mondo. Io non so se posso uscire. Però so che c’è chi esce. So che c’è gente che esce. “Non abbiamo nulla da perdere, che importa quel che vogliamo?” Rispose un manifestante greco che aveva appena tirato una pietra ai poliziotti a un giornalista che lo intervistava. La risposta ricorda la nota frase del Manifesto comunista “i proletari non hanno nulla da perdere se non le loro catene.”
Il mutamento è essenziale. Oranon vi è alcun orizzonte emancipatore, solo la volontà di affondare questa realtà che si è identificata col capitalismo. La lotta è già direttamente liberazione. Esce da questa realtà anche chi, volendo fare una sfida della sua volontà di vivere, se ne impadronisce nel romperla. Escono da questa realtà i compagni che vivono di niente per poter sostenere una casa editrice che è un pugnale nel cuore di questa realtà. Come ne escono coloro che cercano di consumare di meno in maniera collettiva. O quelli che si incontrano per porsi, un giorno dopo l’altro di fronte all’abisso del non sapere. Ne escono coloro che non cercano di ingannarsi e la verità brucia poco a poco.
La forza dell’anonimato
E se smettessimo di essere cittadini? In verità non ci sono due maniere di vuotare la figura del cittadino. Costruzione e distruzione non si oppongono, In ogni tentativo di costruzione c’è distruzione, e al contrario. Solo dal punto di vista del potere si distingue sempre tra violenti e non violenti. Smetterla di essere cittadini è un modo di porre in movimento una potenza di svuotamento tattico e di operare secondo una strategia della trasversalità. Smettere di essere quel che la realtà ci obbliga a essere, ovvero smettere di essere cittadini, consiste nel tracciare una demarcazione tra quel che uno vuole vivere e quel che non è disposto a vivere. Trasversalità d’altra parte significa che non c’è un fronte di lotta privilegiato, per esempio la sfera del lavoro, ma la battaglia si dirige contro la realtà stessa intesa come un continuo di fronti di lotta. Quando la vita è il campo di battaglia, non serve molto continuar a pensare nelle approssimazioni parziali, L’obbiettivo deve essere sempre lo stesso: bucare la realtà per poter respirare. E per questo occorre cominciare ad aprire terre di nessuno. Le terre di nessuno che, chiuse nel fronte di guerra, sono il luogo nel quale ci si può ritirare per tornar ad attaccare questo maledetto videogioco nel quale siamo chiusi. Disattivare la figura del cittadino perché possa emergere la forza dell’anonimato che vive in ciascuno di noi. Questa forza che sfugge perché nessuno conosce la sua vera forza. Questa forza che è irriducibile perché è la forza del voler vivere. Uscire da tutto costruendo un mondo tra di noi. Uscir da tutto senza uccidersi. Uscire anche dalla stessa idea di disattivazione che questo manifesto propone.