“C'ést une révolte!” “Non, Sire, c'est une révolution”, rispose il duca de La Rochefoucauld-Liancourt a Luigi XVI la notte del 14 luglio 1789, dopo la caduta della Bastiglia e la defezione delle truppe reali davanti all'insurrezione popolare. Si affermava in quel momento “la grandezza dell'uomo di fronte alla piccolezza dei grandi”, come disse Robespierre, ed arrivava al culmine il pathos che per decenni aveva acceso gli animi di fronte alla possibilità di liberazione del genere umano dalle carceri del buio medievale.
La rivoluzione a quei tempi trovava prodromi nella lacerazione economica del popolo e nei decenni di fermento culturale con cui gli hommes de lettres francesi, intellettuali nobili maschi liberi dal fardello della povertà, si erano resi promotori di un'idea di razionalismo impaziente di affermare valori di libertà pubblica per l'umanità tutta. La produzione di cultura e la produzione di storia mostrano allora esplicitamente le proprie divergenze, e la “facilità di penna” degli intellettuali viene presto dismessa dalle rivendicazioni del popolo, evidenziando la conflittualità di istanze contenuta spesso nei processi rivoluzionari: mentre i lumi declinavano il superamento dell'ordine aristocratico in termini nazionali o elitisti, la Rivoluzione Francese diveniva espressione del terremoto di pulsioni sino ad allora oppresse dall'ordine monarchico.
Riprendo la questione della Rivoluzione Francese perchè oggi come allora il concetto di ragione, ed ancor più di sapere e conoscenza siede al centro delle mobilitazioni europee. A modo suo propellente delle mobilitazioni, esso si fa ancor oggi portatore di istanze contraddittorie. Da una parte la conoscenza rimane imbrigliata nella tradizione elitista dell'intellighenzia feudal-borghese a tutt'oggi vegeta nell'accademia italiana, dall'altro la rivendicazione dell'autonomia della conoscenza
risponde alla necessità di liberare l'infinità in potenza della vita dalla volontà biopolitica di produrre anime vuote. Frontiera ultima del delirio di controllo del potere di fronte al desiderio d'espressione libera della vita, la questione dell'autonomia della conoscenza diviene dunque centrale, contesa tra dinamiche privatiste dall'alto ed intrecciata dal basso nei residui dell'elitismo accademico e nella rivendicazione di libertà infinita per l'umanità vivente. Queste dinamiche, presenti e visibili nei mesi scorsi in Italia, pongono oggi alcuni nodi.
Comincio da un dato significativo: la simultaneità europea dei movimenti contemporanei della conoscenza nasce entro cornici rivendicative di finanziamento alla ricerca e di diritto allo studio. Entro queste cornici i movimenti europei degli ultimi mesi hanno risposto alle minacce note della riforma dell'istruzione: la clientarizzazione degli studenti, la svalorizzazione del sapere, l'introduzione di prestiti d'onore che scalpitano per produrre giovani laureati precari indebitati fino al collo. Le mobilitazioni di questi mesi hanno dato voce a questi nodi ma la rivendicazione di massa dell'autonomia della conoscenza rivela una problematica più complessa, di cui in Italia si è fatto portavoce quasi esclusivamente il movimento studentesco. Il cuore della protesta risiede nello slogan “riprendiamoci il futuro”, che inserisce la questione della conoscenza nel vicolo cieco della crisi di mercato. Oggi il vilipendio dei diritti del lavoro e la sottrazione alle comunità dei loro beni chiede complicità all'istruzione per soffocare il conflitto.
La riforma dell'istruzione si propone di trasformare l'autonomia del sapere in una fabbrica di consenso ove l'istruzione aiuti il ripiegamento funzionalista delle masse all'austerità. L'istruzione del Bologna Process si fa così strumento di un ordine distopico, figlia della necessità di allineare l'endoscheletro soggettivo ad un esoscheletro neoliberista ove la crescita è declino, e la scelta è limitata a un lavoro senza diritti o a diritti senza lavoro. In questo contesto la riforma europea dell'istruzione diventa non variabile accessoria della crisi bensì sua componente attiva, mano destra di sincronizzazione tra università e mercato da intendersi come laboratorio antropologico di controllo disciplinante volto non solo a sussumere come input produttivi la creatività e la fantasia dirompente dei più giovani, o a fungere da strumento classista di dismissione del surplus di manovalanza innecessario, ma a divenire fabbrica di un'umanità priva di desiderio e consenziente al divieto d'autonomia. Dopo decenni di affinamento il controllo del biopotere trova dunque nella riforma dell'istruzione una missione quasi divina. Non si tratta ora di generare consenso ad un'egemonia inclusiva. Si tratta di svuotare le soggettività in grado di opporsi al declino.
Questa è la minaccia che ha riempito le piazze. Dietro agli slogan contro la precarietà e la fine del futuro c'era la percezione di un cambiamento epocale: una richiesta di adattamento ad un sistema distopico che conduce a pieno titolo nel post-umano di Ballard, perchè post-umano è il progetto
biopolitico sotteso alla riforma. La distopia Ballardiana descrive un mondo governato dalla privazione del desiderio e dalla negazione della possibilità. Ci sono uomini costretti a vivere svegli nel buio senza mai sognare, slogan che trasformano il pensiero in contagio e cavie in cattività esposte solo all'umiliazione della vita.
La riforma dell'istruzione nasce da una visione affine, certo meno geniale, ma sintomatica del delirio di controllo del potere in crisi. Le terre madri dei migranti da secoli sanno che il governo degli uomini bianchi si nutre di umiliazione. Hanno assistito al delirio di onnipotenza degli stati coloniali ed oggi, vent'anni dopo la fine della storia guardano il conflitto rinascere nel cuore dell'impero. Non è una cosa scontata. Storicamente al contrario il desidero di rivalsa di uomini “incapaci, inetti, dieci volte falliti ed indolentissimi”, come inevitabilmente è la classe da molti anni al governo, ha saputo legarsi sciaguratamente “al senso d'inferiorità (molto meno legittimo) di un
popolo vinto che [...] pensa solo a restaurare il proprio onore”. Da questi abissi deriva il ritratto che Thomas Mann faceva di “Fratello Hitler”, derivano le sciagure dell'epoca fascista, deriva anche il
Pacchetto Sicurezza che un anno fa portava un paese come l'Italia “fanalino di coda in ogni campo [...] all’avanguardia del razzismo”, come ha scritto Annamaria Rivera. L'inettitudine del potere fa leva sulle frustrazioni del popolo per legittimare progetti di umiliazione sociale ed a lungo vi è riuscito. Al contrario in Italia, in Inghilterra ad Algeri o in Francia le recenti riforme hanno acceso un'opposizione di massa. Perchè?
In autunno le proteste si sono diffuse a macchia d'olio in tutta Europa. Manifestazioni in Francia, Spagna, Portogallo, Irlanda, Inghilterra, Grecia e Italia. A Londra la University for Strategic Optimism ha occupato Lloyds TBS rivendicando il diritto a tenere lezioni nelle banche dal momento che le banche occupano le università. Il 10 Novembre 50 mila studenti hanno occupato le piazze “to CON-DEM” la coalizione di democratici e conservatori al governo che ha appoggiato la riforma universitaria. Nel contempo in Italia l'avversione studentesca al bipartisan gridava “non ci rappresenta nessuno”, e rapidamente una generazione nata dopo la fine della storia annunciava che “History Has Not Ended!” A Roma il corteo del 14 dicembre era un fiume umano, un movimento
autoconvocato che attraversava Roma con la testa ai Fori Imperiali e la coda a Termini mentre un nuovo corteo partiva da Piramide. Gli studenti hanno messo i lucchetti alle sedi universitarie, hanno rivendicato la fame di cultura smettendo di mangiare, hanno sfidato Tassaci Ancora Tremonti!,
e poi hanno voltato le spalle al potere occupando in massa i quartieri invisibili. È stato detto che la rivolta nasceva dall'effetto rivoltante dell'avidità, il profitto e la diseguaglianza dell'era neoliberale, ma non è solo questo. La rivolta di novembre e dicembre non è stata semplicemente una risposta. È stata una rivoluzione copernicana ed un'esplosione di dignità.
Ci sono diversi aspetti sorprendenti in queste mobilitazioni. Una generazione depoliticizzata dalla repressione (in)felice si è ribellata mostrando un'intelligenza politica in grado di confrontare il potere sul suo stesso terreno. E il terreno dello scontro non era semplicemente l'opposizione ad una riforma. Era la liberazione di soggettività. Il conflitto oggi non si misura sul passaggio o meno di un disegno di legge guidato da una borghesia “ogni giorno più irascibile, ogni giorno più feroce, ogni giorno più spudorata, ogni giorno semplicemente più barbarica”, come scriveva Cesaire (1972:45). Il conflitto si misura sulla capacità di umiliare il potere liberando l'intelligenza collettiva dal suo controllo. In questo senso l'azione studentesca ha mostrato una brillantezza limpida capace di ispirare. Gli studenti hanno occupato i monumenti e gli spazi pubblici per riterritorializzare l'intelligenza collettiva nel comune e rimettere in circolazione il sapere. Hanno trasformato il desiderio collettivo in un laboratorio di significato e trasformato il potere in verbo, “poter....... muoversi poter correre poter bere dormire sognare accarezzare amare godere pensare”, come scrivevano nel '77. La soggettività collettiva ha cominciato ad esprimersi, è questo il dato fondamentale, perchè la sfida della conoscenza è riappropriarsi del diritto ad immaginare la vita.
Dove sono i nodi, dunque.
In Italia come in Inghilterra la riforma della conoscenza è divenuta legge. Più che la fine del movimento questo è dunque il suo inizio. È un inizio fondamentale perché sprigiona dall'intelligenza ribelle della vita e perchè mette a fuoco il cuore del problema. E il cuore del problema è che oggi non c'è più un nemico. Il potere è disperso ed il nemico è tutto ciò che imbriglia il bene comune della felicità. In questo contesto l'autonomia della conoscenza diviene un terreno di conflitto politico sul quale si giocano alcune questioni importanti. Ritorno alla situazione settecentesca.
A quei tempi l'elitismo illuminato, socialmente arginato nel suo razionalismo moderato meno radicale dalla passionalità popolare, rende la pratica della storia disorganica alla conoscenza. Oggi la svalorizzazione della conoscenza, stretta alla precarietà e intrecciata alla storia, colloca sul suo corpo il terreno politico del conflitto. La conoscenza può essere controllo del biopotere, oppure miniera di immaginazione e di conflitto. in questo senso essa rivendica la sua organicità non più solo alla storia, ma ad un concetto di conoscenza in grado di divenire spazio infinito di desiderio creativo e nomade. Su questo terreno si giocano dunque diversi conflitti: il primo è la sottrazione del bene comune della conoscenza alle funzioni dell'egemonia sociale e del controllo politico. Il secondo, che a questo è contiguo, è la sottrazione della conoscenza alle istituzioni. Nell'epoca fascista solo undici docenti su più di mille si sono dichiarati indisponibili al giuramento mussoliniano. Negli anni Sessanta l'indisponibilità alla docenza era un dato limitato.
L'inizio della ribellione in accademia negli ultimi mesi non è un dato scontato. Tuttavia il ruolo del sapere come terreno di lotta politica rende urgente la partecipazione attiva alla rivolta. In questo senso l'accelerazione della svalorizzazione della conoscenza probabilmente scioglierà in parte il conflitto di interessi che ancora imbriglia quella parte di ricerca italiana stretta tra anni di “servizio ed ossequio [...] in cambio di un posto nella vostra potestà”, ed il timore di abiurare a privilegi che il
mercato ha già tolto. Forse libererà la ricerca dalla servitù, portandola ad accettare la storia come parte organica di sè. Ma tale passo oggi è urgente, per un'altra ragione che ci porta all'ultimo punto.
Nei giorni di dicembre le strategie di lotta hanno alternato critica e consenso. Gli applausi degli automobilisti bloccati nelle autostrade e dei passeggeri di treni soppressi esprimono in proiezione il risveglio timido eppure diffuso del desidero collettivo. In quei giorni l'azione studentesca ha mostrato la capacità di risvegliare ispirandola la fiducia di generazioni piegate da anni alla lamentela e all'incapacità di desiderare. Questo consenso in parte è venuto meno il 14 dicembre, probabilmente perchè, per utilizzare le parole di Hannah Arendt, in quel giorno l'ispirazione della libertà ha lasciato il passo all'odio appassionato per i padroni. “Quest'odio”, continuava la Arendt, “è senza dubbio antico quanto la storia e forse anche più antico, ma è incapace [...] di afferrare l'idea centrale di rivoluzione, che è l'instaurazione della libertà, ossia la fondazione di uno stato che garantisca lo spazio in cui la libertà può manifestarsi”. (Arendt, 135).
Ora il punto non è capire che cosa può o che cosa non può quest'odio. Il dato fondamentale è che c'è, e che c'è non a caso, perchè non si possono cancellare decenni o ancor più secoli di umiliazione e pretendere che dalle ferite nascano anime non armate di artigli e di canini. C'è, e la trasformazione dell'odio in passione per la libertà richiede corpi disposti ad intrecciarsi per ricucire un tessuto sociale lacerato saziando l'anima collettiva dei suoi appetiti e delle sue inquietudini. Questo processo non può attendere né è delegabile. La direzione della storia non è delegabile. Saziare l'anima collettiva dei suoi appetiti e delle sue inquietudini: questa è la funzione della conoscenza. Dunque la rivolta della conoscenza è la rivolta di tutti coloro che hanno a cuore le inquietudini della terra: è la rivolta del lavoratore immateriale, è la rivolta dell'intelligenza collettiva dai contagi dell'enunciazione, è la rivolta del corpo dalla sua gabbia è la rivolta dell'amore dalla rabbia. È la rivolta del desiderio in chi l'ha soffocato è la rivolta della libertà.
Gli studenti hanno cominciato. Continuiamo.
Nota: questo articolo è stato pubblicato su Loop no. 12