La fine dell'era della giovinezza

Ho venticinque anni, e niente mi insospettisce di più di vedere miei coetanei indossare vestiti vintage. Il vintage è una categoria di abbigliamento molto diversa dal tipico ‘usato’ e, se osservata criticamente, può dirci molto sullo stato della gioventù odierna.

Il vintage riprende tratti dell’abbigliamento giovanile di diversi periodi del novecento e li fa rivivere come stereotipi all’interno del proprio spazio di aleph postmoderno. Attraverso il vintage, l’estetica ribelle dei giovani degli anni ’60, quella creativa e perduta dei ’70, quella edonistica degli ’80 e quella estatica dei ’90, tornano tutte insieme in versione zombieficata all’interno del mercato simbolico del capitalismo contemporaneo.

 

In realtà, quello che si manifesta in questo processo è nient’altro che la dissezione e la mobilitazione dell’idea stessa di gioventù, trasformata da categoria anagrafica in categoria estetica e, come tale, inserita nel contesto del semiocapitalismo.

 

È proprio grazie a questo processo di astrazione che è stato possibile inserire il valore ‘giovinezza’ all’interno dei prodotti di moda venduti ai quarantenni in cerca di un’identità tanto semplice quanto fragile. A titolo di esempio, basta guardare le nuove linee di prodotti sui temi ‘rock’n’roll e ribellione giovanilistica’ e ‘giovane nerd newyorkese’ che furoreggiano al momento nei guardaroba dei non-più-giovani.

 

Quando vedo un giovane vestito come uno stereotipo giovanile di un’altra epoca, non posso trattenere la tristezza che provo nel vedere quei nativi nordamericani nelle piazze delle città europee mentre suonano i flauti di pan vestiti da ‘Indiani d’America’. E, al contempo, non posso fare a meno di chiedermi: che cosa è successo ai ‘nativi’ della giovinezza, espropriati della loro naturale definizione?

Che cosa è successo ai giovani?

 

 

I giovani

 

Senza alcuna sorpresa, possiamo constatare come ai giovani oggi tocchi la tipica sorte delle popolazioni culturalmente ed economicamente espropriate.

 

A livello culturale, i giovani vivono un tipico paradosso post-coloniale: nel momento in cui la giovinezza viene glorificata dal mainstream, ai giovani viene rivenduta l’idea stessa di giovinezza in forma di prodotti. Qualcosa che ricorda molto da vicino quanto è successo di recente con la commercializzazione della musica hip hop e dell’estetica della ‘negritudine’ rivenduta ai giovani afroamericani.

 

A livello economico, moltissimi giovani si trovano in una condizione di sovra-sfruttamento lavorativo e di completa precarietà. Non c’è ragione per soffermarsi a lungo sull’argomento, vista l’auto-evidenza del problema. Basti citare soltanto qualche parola chiave: mobilitazione affettiva, internship, precariato e debito pubblico.

 

La mobilitazione affettiva è il processo alla base della nuova concezione del lavoro come ‘passione’ – una concezione che non solo distrugge le barriere tra tempo libero e tempo lavorativo, ma che porta anche alle pratiche di autosfruttamento e autodisciplina oggi assolutamente diffuse tra i giovani che entrano nel mondo del lavoro, soprattutto nelle industrie culturali.

In questo senso bisogna intendere anche le internship, che si configurano come momenti di selezione e di iniziazione dei giovani al mondo del lavoro: è solo attraverso la dimostrazione di un vero commitment (leggasi: volontà di sacrificio) da parte del giovane che sarà a lui/lei concesso di entrare nel mondo del lavoro.

Alla internship segue, immancabilmente, il precariato, ovvero la condizione semi-permanente di dover rinegoziare continuamente il proprio accesso alle risorse lavorative e, di conseguenza, economiche.

Oltre e sopra a questo, il debito pubblico si stende sul futuro dei giovani come un presagio di inevitabile sventura: il finanziamento delle attività statali degli ultimi sessant’anni tramite ricorso all’indebitamento pubblico ha messo le nuove generazioni non solo in condizione di non poter più accedere ai servizi del welfare state, ma anche nella posizione paradossale di dover coprire il debito accumulato da altri in precedenza.

 

Naturalmente, non bisogna dimenticare come le dinamiche di genere sessuale e di classe influenzino il maggiore o minore impatto di tutto questo sulla vita dei giovani. Ma soprattutto, non dobbiamo dimenticare l’importanza delle dinamiche di razza o, più esattamente, di cittadinanza. Chi sono, infatti, i giovani che popolano oggi le città europee? In un continente che verge da anni sullo zero demografico, i giovani sono sempre più ragazzi e ragazze arrivati da altre zone del mondo su gommoni sovraffollati o nascosti nei container di navi e treni merci. I giovani occidentali sono sempre più giovani immigrati, privi di cittadinanza, privi di ogni risorsa economica se non la propria forza-lavoro, nude vite cacciate fuori dalle strutture di sicurezza sociale nello steso momento in cui vengono risucchiati nello sfruttamento che sta al cuore delle società capitalistiche.

 

La distanza tra l’estetica della gioventù e la realtà dei giovani è stridente: la stessa distanza che intercorre tra i bei giovani di colore delle pubblicità di Benetton e i giovani migranti africani rinchiusi nei centri di permanenza temporanea, tra le giovani ballerine televisive e le giovani stagiste sfruttate, tra gli adolescenti di Dawson’s Creek interpretati da attori trentenni e le adolescenti che si prostituiscono nei bagni dei licei in cambio di cocaina, tra la gioventù siliconta di Zac Efron alle prese con un High School Musical e l’isteria depressiva in cui si dibattono oggi i giovani artisti.

 

In questo scenario, come è possibile che sia ancora quello della ‘giovinezza’ il paradigma estetico oggi imperante?

 

 

Gli anziani

 

Gli anziani, oggi, non esistono. O, meglio, esistono allo stesso modo in cui esistono i disabili: nelle statistiche ufficiali e nell’inconsistenza dei discorsi politically correct. Tutti gli altri, a prescindere dalle categorie anagrafiche, cercano disperatamente di non essere anziani. Del resto, nell’epoca postmoderna del paradosso temporale e della sincronia, anche l’età non è altro che un gioco di simboli e di specchi.

 

Qual’ è la ragione alla base della vergogna che gli anziani provano ad essere tali? Il fatto è che negli ultimi decenni la ‘giovinezza’, da categoria estetica, è progressivamente diventata anche una categoria etica, in grado di influenzare e dirigere le vite degli individui.

 

Parafrasando Sant’Agostino, possiamo dire che l’essere anziani, oggi, è un concetto che agisce solo negativamente, in quanto ‘assenza di giovinezza’, proprio come il ‘male’ agiva in quanto ‘assenza di bene’ nell’etica agostiniana.

 

Come altro potrebbe essere, se centinaia di persone si sottopongono oggi a interventi traumatici sul proprio fisico come le pratiche di chirurgia estetica volte a ringiovanire il corpo degli anziani? Su cosa altro si baserebbe l’intera industria della cosmesi contemporanea, se non sul valore esistenziale ed etico dell’idea di giovinezza - fino al punto paradossale della diffusione delle creme antirughe tra le sedicenni?

 

E tuttavia, questa condizione non può che scontrarsi con le condizioni socio-economiche della società odierna: grazie all’azione combinata di una crescita demografica quasi nulla e ai progressi della medicina, gli anziani occupano oggi una porzione predominante della popolazione e dell’economia occidentale.

 

Non solo gli anziani godono degli ultimi barlumi della protezione sociale e del sistema pensionistico in via di smantellamento, ma le posizioni dirigenziali all’interno delle industrie contemporanee sono in grandissima parte occupate da uomini e (più raramente) donne anagraficamente anziani. Allo stesso modo, i parlamenti degli stati-nazione occidentali sono oggi, salvo rare eccezioni, occupati da anziani.

 

Nessuna sorpresa, dunque, che in paesi come l’Italia (dove la gerontocrazia è così assoluta da sfiorare il suicidio sistemico) il focus delle azioni di polizia si sia progressivamente concentrato su tre generi di reati strettamente legati alle fasce giovanili: il reato di immigrazione clandestina, i comportamenti cosiddetti antisociali (graffiti, schiamazzi notturni, ubriachezza molesta, etc…) e, legati a questi, quelli connessi all’uso di sostanze stupefacenti.

 

Alla luce di tutto questo, il paradosso è evidente. Com’è possibile che la classe (anagrafica) oggi dominante in Occidente si lasci condizionare dalle chimere di un’estetica/etica che la spinge ad assomigliare alle classi subalterne, piuttosto che glorificare il suo evidente potere?

 

 

Le superstar

 

Questa contraddizione trova la sua espressione più chiara nel fenomeno delle superstar.

 

Fino agli anni sessanta il ruolo della supertstar, soprattutto nel cinema, è stato svolto da attori e attrici non particolarmente giovani e nemmeno camuffati da tali: da John Wayne ad Amedeo Nazzari a Burt Lancaster, le superstar cinematografiche di quegli anni sono uomini e donne maturi. Nei decenni successivi, invece, a partire dal mito postumo di James Dean ma soprattutto con l’avvento del rock’n’roll globale, sono i giovani ad essere scelti come i portatori ideali del ruolo di superstar.

 

Se la maturità delle superstar precedenti era una condizione flessibile e capace di una evoluzione nel tempo, la giovinezza delle nuove superstar è invece un momento unico e cristallizzato. La giovane superstar non può invecchiare e, nel caso ideale, ha la decenza di morire o scomparire prima del tramonto della sua giovinezza.

 

Gli esempi più lampanti potrebbero essere le morti seriali delle rock’n’roll stars negli anni settanta, ma in realtà questo fenomeno non ha avuto alcuna flessione nei decenni successivi: in questo senso, le morti premature di Basquiat e Kurt Cobain corrono parallele alla morti viventi dei ‘sempre-giovani’ Andy Warhol e Michael Jackson.

 

Nel frattempo, il binomio superstar-giovinezza ha continuato a farsi più stretto: pensiamo al prodotto mediatico dei Young British Artists negli anni ’90, alla carne mummificata di Madonna, alla costruzione artificiale del giovanissimo sex-symbol Zac Efron o al lancio su scala mondiale da parte della Disney della cantante pre-teen Hanna Montana.

 

Quali sono state le ripercussioni di questo fenomeno sui giovani, e, ancor di più, sugli anziani?

 

Agli occhi dei giovani (in particolare se artisti o musicisti), la conseguenza più immediata è stata l’accentuarsi di un’isteria lavorativa che non ha tardato a trasformarsi in panico esistenziale. In un mercato composto composto sempre più da sole giovani superstar, i giovani artisti non hanno altro da offrire che la coincidenza del proprio tempo anagrafico con l’estetica della ‘giovinezza’. Ovviamente, in questa ossessione di sfondare immediatamente, il prodotto artistico assume un’importanza secondaria: non c’è tempo per concentrarsi sulla qualità del prodotto, così come non c’è tempo per pensare ad una possibile evoluzione del proprio linguaggio artistico.

 

Stretti tra il baratro del precariato e dell’emarginazione sociale, da un lato, e dall’iper-velocità del mercato delle superstar, dall’altro, i giovani artisti vivono la propria giovinezza come una situazione di crisi in bilico tra due soluzioni insostenibili: quella probabile e orribile del precariato e quella impossibile della superstar.

 

In completa consonanza con la provenienza di tanti giovani odierni, la giovinezza si configura per loro sempre più come lo stato di sogno e terrore dei barconi in viaggio tra il Sud Globale e l’Occidente: in bilico tra il sogno impossibile di una nuova cittadinanza nel paradiso delle superstar, i cancelli incombenti del centro di permanenza temporanea del precariato e i vortici sempre presenti della disoccupazione totale.

 

Anche gli anziani si trovano in una situazione paradossale, sebbene totalmente opposta. Nonostante la loro potenza politico-economica, gli anziani si trovano ancora nella condizione di dover inseguire un modello etico ed estetico al contempo onnipresente nei prodotti che promettono giovinezza e insieme irrimediabilmente lontano. Questa è stata, in buona parte, la condizione degli anziani negli ultimi decenni. Negli ultimi, pochi, anni, un altro elemento si è aggiunto alla condizione di inferiorità etico/estetica degli anziani. dopo anni di utopia tecnofuturistica, Il sogno della scienza si è frantumato, sembra irrimediabilmente. In questo tempo che segue la fine dell’idea di progresso scientifico illimitato, gli anziani di oggi sono sempre più coscienti dell’impossibilità di una vera e propria resurrezione dei loro corpi nel paradiso della ‘giovinezza’. Al di là delle promesse del mercato, il discorso della giovinezza comincia a rivelarsi agli anziani nella sua natura di ou-topos commercialmente costruito e naturalmente impossibile.

 

Progressivamente, si sta presentando agli anziani una separazione lacerante tra la propria condizione naturale e il modello ideale delle superstar - una separazione resa ancora più dolorosa dalla fine delle speranze nei miracoli della scienza, da un lato, e dalla frustrazione di un potere politico ed economico che non si rispecchia in un equivalente dominio etico/estetico.

 

Non bisogna nemmeno dimenticare che gli anziani di oggi sono gli stessi individui cresciuti nell’era del cinema, della televisione e dell’industria culturale di massa: sono gli stessi individui abituati da sempre a rispecchiarsi nel cielo basso delle superstar e a trarre da loro un modello e una giustificazione per la propria vita. In un’epoca in cui la rappresentanza politica si è ormai sfaldata, la rappresentazione di sé mediata dalle superstar si costituisce sempre più come un bisogno fondamentale per tutte le categorie anagrafiche. Detto in altri termini, gli anziani odierni hanno bisogno delle loro superstar allo stesso modo in cui si dice che ne abbiano bisogno gli adolescenti.

 

È davvero possibile credere che il modello etico/estetico attuale - esemplificato dalle giovani superstar - sia in alcun modo sostenibile nel lungo termine all’interno di un contesto politico/economico in cui la classe dominante (gli anziani) non trova la propria rappresentazione nell’Olimpo mediatico?

 

Come possiamo immaginare le superstar di domani?

 

 

La fine dell’era della giovinezza

 

È l’Italia a fornirci un esempio di quali potrebbero essere le prossime ripercussioni estetiche del regime di gerontocrazia che caratterizza oggi l’intero Occidente. Si tratta di un esempio pionieristico e dunque ancora imperfetto, e tuttavia è proprio il caso della principale superstar italiana contemporanea a consentirci di immaginare la transizione verso un nuovo modello di estetica anziana e l’avvento delle superstar anziane. Naturalmente, stiamo parlando del presidente del consiglio italiano Silvio Berlusconi.

 

Nella sua estetica, Berlusconi non assomiglia affatto a un personaggio suo equivalente (e quasi coetaneo) quale il magnate dei media Rupert Murdoch: sul volto di Berlusconi non ci sono né le rughe devastanti né il vecchio sguardo severo del miliardario australiano. Al contempo, però, il volto e il corpo di Berlusconi non assomigliano nemmeno alla giovinezza imbalsamata di una star come Madonna. Berlusconi non appare vecchio, ma nemmeno giovane. Piuttosto, il presidente del consiglio italiano preferisce abbracciare un’estetica ‘atemporale’, che ancora non accoglie in sé gli elementi visivi più tipici dell’anzianità ma che al contempo scardina il concetto novecentesco che vedeva giovinezza e superstar come un binomio inscindibile. È proprio grazie a questa sua ambiguità che Berlusconi è diventato, negli ultimi anni, la prima, vera e possibile superstar in cui gli anziani italiani riescano ad identificarsi: una condizione, questa, che ha influito non poco sulla popolarità (senza eguali nel panorama politico occidentale) del presidente del consiglio italiano, nonostante le sue continue vicende giudiziarie e gli insuccessi come guida di uno Stato in crisi socio-economica.

 

Sulla scorta dell’esempio italiano, possiamo immaginare come in un prossimo futuro l’industria mediatica occidentale raggiunga la conclusione che il suo target principale abbia un’età avanzata, una posizione economica privilegiata e un desiderio bruciante di vedersi rappresentato e glorificato nel cielo stellato del mediascape. Finalmente, a quel punto, si vedrebbe la comparse delle prime superstar visibilmente anziane e di una nuova etica/estetica anziana.

 

Del resto, questa svolta troverebbe perfetta corrispondenza nel panorama attuale del cosiddetto Green Capitalism, che vede nella ‘sostenibilità’ il suo nuovo mercato di riferimento. Non sarebbe forse semplice presentare la ‘sostenibilità’, in termini di produzione estetica, di un nuovo paradigma in cui le ripartizioni anagrafiche trovino la propria corrispondente collocazione estetica? Non sarebbe questo - oltre che un mercato nuovo e immenso - una soluzione assolutamente ‘naturale’, ‘biologica’, ‘ecosostenibile’? Ci sarebbe poco di sorprendente se ci fosse un’accettazione quasi unanime a questa svolta, presentata come ‘necessaria’ e, addirittura, ‘progressista’...

 

Non passerà molto tempo che gli anziani vedranno il proprio domino splendere sui volti delle nuove superstar, sui loro sorrisi pur sempre irraggiungibili eppure, finalmente, così vicini da poter essere davvero sognati.

 

E per i giovani? Dopo decenni di sfruttamento, ai giovani verrà ridato ciò che resta di un’idea di giovinezza che è stata utilizzata e abusata in tutte le sue forme. Non ci sarà più molto di cool in quell’età che sempre più sarà confinata nelle periferie squallide in cui si rifugiano gli immigrati. Non ci sarà più il luccichio dei palcoscenici e delle passerelle di moda ad offuscare una realtà di emarginazione politica ed economica.

 

Quello che ci sarà per i giovani, invece, è una nuova possibilità di reinventare la propria condizione e, soprattutto, di farlo in uno spazio di intimità, senza i riflettori e i fotografi ad occupare militarmente il terreno. Quello che ci sarà è la possibilità per i giovani di scomparire dal radar e nascondersi, di ritirarsi e ritrovarsi, per ripartire, un giorno, verso la costruzione di una giovinezza che sia l’inizio di una vita autonoma e piena.

 

Eppure, in tutto questo, c’è anche qualcosa che non cambierà. Proprio come nei sogni del Green Capitalism, che vuole sostituire un capitalismo rinnovabile ad un capitalismo al petrolio, l’elemento che non cambierà sarà la cornice che racchiude il fenomeno della superstar. Che siano giovani o anziane, le superstar del futuro balleranno ancora al ritmo e sotto le luci del semiocapitalismo.

 

C’è solo da sperare che, nel confino della loro emarginazione finalmente rivelata, siano proprio i giovani a vedere come siano in realtà identici i fili che controllano le mosse delle superstar e le vite degli spettatori. Forse, nella condizione privilegiata di chi non ha più niente da perdere, saranno proprio i giovani a decidere di voler tagliare quei fili. Auguriamoci che lo facciano con tutti i mezzi necessari.