9 Novembre 1989 – Una terza posizione

Come si fa ad occupare una terza posizione quando non esiste più una seconda?

Hakim Bey, 1996

 

Just Do It

Dan Wieden, Nike, 1988

 

Nei primi giorni del novembre 1989 il cielo sopra Londra si fece grigio come i palazzi che sorvolava e per più di una settimana il vento mitragliò le strade con pioggia e grandine. La gelata ricoprì le macchine di brina e diede ai binari della ferrovia la sfumatura più bianca dell’acciaio.

In quel periodo vivevo in uno squat nel sud est della città, in una zona di torri di cemento, dove si stipavano gli africani immigrati, di spazi industriali deserti e ruderi di palazzi vittoriani nelle cui cantine il sabato si facevano le lotte dei cani. Il nostro squat erano i locali di un vecchio pub che condividevamo con Clem, un anziano irlandese che passava la vita tra il collezionismo compulsivo di ogni oggetto che trovasse per strada e la sua tormentata storia d’’amore con Consuelo, un giovane parrucchiere transessuale brasiliano. Proprio accanto alla stazione di Peckham Rye, in un lungo spazio di terra incolta in fondo alla scarpata che divide il passaggio di treni dalle case, i ragazzi dello squat ed io avevamo un piccolo orto clandestino in cui coltivavamo quello che ci serviva per mangiare. Con fortune alterne, l’orto ci aveva sfamato per buona parte degli ultimi due anni.

Una mattina di quel novembre, al termine dell’ennesima grandinata, uscii dall’orto chiudendomi alle spalle la recinzione che lo teneva nascosto e mi accesi una sigaretta. Infilai le mani in tasca e camminai lentamente tra le strade di Peckham, con l’animo ferito dell’agricoltore. Era tutto da rifare: la gelata aveva scoperto le nostre coltivazioni e le aveva completamente massacrate. Attraversai il mercato africano, lanciano sguardi invidiosi alle bancarelle colme di pomodori e ortaggi, finchè non sbucai nella strada in cui il nostro squat svettava tra il cemento dei garage come una fortezza nel deserto, con le sue finestre chiuse da tavole di legno e la bandiera bianca che sventolava al posto dell’insegna del pub. Come di consueto forzai la porta con una tessera dell’autobus ed entrai in quella che un tempo era stata la sala da biliardo. Trovai i miei compagni tutti riuniti lì dentro, seduti sull’accozzaglia di divani che arredava la sala a fumare sigarette e a guardarsi l’un l’altro con facce pensose.

L’aria della riunione faceva pensare che non sarei stato io il primo a portare cattive notizie quel giorno. ‘Che succede?’ chiesi all’adunanza ‘Sta crollando il muro’ rispose una voce da dietro la cortina di sigarette. ‘Merda’ dissi prendendo una lattina di birra da terra e sedendomi su un divano. Non che non me lo aspettassi. ‘C’è stata troppa pressione dall’altro lato e anche i rinforzi non hanno retto.’ Continuò la voce, nel silenzio generale. ‘È crollato del tutto?’ chiesi ancora ‘Per ora si è solo aperta una breccia, ma stai sicuro che tra poco viene giù tutto.’ ‘Merda. E adesso?’ ‘Non si sa. Clem è in uno stato pazzesco e non ci si può parlare. Consuelo lo ha piantato di nuovo. Il che, tra l’altro, è la causa di tutto questo.’

La storia me la immaginavo già. Dopo l’ennesima scenata di Clem, Consuelo gli aveva detto di sparire per sempre e di non cercarla più. Clem era salito in macchina sconvolto e sulla strada verso casa aveva avuto uno dei suoi attacchi bulimici di spazzatura, caricando la machina di qualunque cosa trovasse per strada. Poi aveva provato a mettersi tutto in casa, in quelle due stanze già sature di cose in cui pretende di vivere. Naturalmente, una delle pareti, già pericolante, non aveva retto alla pressione ed era esplosa. Immaginavo anche dove fosse Clem in quel momento. Accucciato in un buco libero in mezzo alle sue cataste di oggetti, a bere una tazza di tè e a guardare fisso il pavimento.

Bevvi una sorsata di birra e poi, giusto per spezzare la tensione che c’era nella stanza, dissi: ‘E comunque il nostro orto è fottuto. La gelata ha ammazzato tutte le piante. – la platea rimase muta dietro la coltre di fumo – pensavo che fosse il caso di dirvelo.’ Mi alzai dal divano, sentendo che il freddo infernale della sala mi aveva già fatto perdere sensibilità alle gambe. ‘Vabbè, io vado a vedere come va con il muro’ dissi congedandomi da quella nuvola di musi lunghi.

Percorsi le scale che portavano al piano di sopra, verso la zone in cui c’erano le nostre camere da letto e la cucina. Salii gli scalini lentamente, già stanco di quella giornata autunnale ancora più deprimente del solito. Chissà in che stato era la cucina, con quelle brecce nel muro da cui probabilmente usciva già tutta la spazzatura di Clem… Superai un paio di gradini pericolanti e appoggiai la mano alla parete per non perdere l’equilibrio. Poi feci solo un altro passo e mi fermai. La parete era bollente. La toccai di nuovo, finchè non mi scottò la mano. Provai un paio di gradini più in alto. Non poteva essere una tubatura, visto che nessuno in quell’edificio aveva un riscaldamento ad acqua. La parete scottava anche più sopra, anzi, sembrava ancora più calda. Corsi in cima alla scala, tenendo la mano vicino all’intonaco che andava via via sollevandosi in grosse bolle lungo la parete. Sul pianerottolo c’era addirittura caldo. E dalla cucina usciva una luce giallastra intermittente, stranamente familiare.

‘Ehi! Venite su, cazzo!’ urlai di sotto. Non c’era da sbagliarsi, stavolta Clem l’aveva fatto davvero. ‘Ohi, venite su dico! Clem ha dato fuoco a tutto!’ E dire che ne aveva parlato per mesi. Di farla finita, dare fuoco a tutto e bruciarsi insieme a tutta la sua immondizia. ‘Come un re Vichingo’ diceva lui. Non potevo credere che l’avesse fatto davvero. Gli altri ragazzi finalmente si tirarono su dai loro divani e salirono le scale di corsa. Io entrai nella cucina, senza riuscire più a distinguere quale fosse la breccia originaria nel muro che adesso sembrava crollare tutto insieme, mentre la collezione di Clem si spandeva in tizzoni sul pavimento. Per un attimo mi passò per la mente che c’era una buona probabilità che da un momento all’altro l’intero edificio ci crollasse sulla testa, ma per noi, ad ogni modo, non c’era altra scelta. Avevamo già perso l’orto quella mattina, se avessimo perso anche la nostra casa saremmo stati davvero spacciati. Quel fortino a Peckham era la nostra ‘terza via’, l’unica che volevamo percorrere, e valeva la pena di rischiare.

Ci lanciammo verso il bagno, rovistammo nei compartimenti della cucina e improvvisammo una catena d’acqua per cercare di domare le fiamme. Uno di noi andò a prendere delle coperte, le passò sotto l’acqua e si fece largo a colpi di coperta al di là del muro, dentro le stanze di Clem. Lo seguimmo tutti quanti, andando a tentoni attraverso il fumo in cerca delle finestre nascoste dietro i cumuli di roba. Clem era ancora seduto per terra, con la sua tazza di tè in mano, mezzo intossicato. Lo trascinammo fuori e ci buttammo di nuovo dentro il suo appartamento, cercando di spegnere tutti i focolai che aveva appiccato in giro. C’era veramente da svenire, tra il fumo denso, il caldo insopportabile, una mancanza completa d’ossigeno e l’ansia che tutto il soffitto stesse per crollarci sulla testa.

E a quel punto, nella mia memoria, c’è come un vuoto. Ricordo soltanto un’immagine di noi seduti per terra in cucina, esausti, a guardare le ultime boccate di fumo nero uscire dalle brecce nel muro e a cercare di riprendere fiato. Mi ricordo anche di Clem, accovacciato in un angolo del corridoio, accanto alle scale, con in mano la sua tazza di tè e gli occhi sul pavimento, con l’aria di chi non si fosse accorto di niente.

Non so come, ma ce la facemmo a spegnere il fuoco e quel giorno il palazzo, miracolosamente, ebbe la bontà di non collassare. Decidemmo di non chiamare i pompieri o la polizia. La terza via, in fondo, richiedeva pur sempre una qualche coerenza. E nessuno, tra noi, aveva voglia di far entrare ‘pubblici ufficiali’ a rovistare nella nostra casa.

Passammo un pomeriggio e una notte inquiete, con l’incubo che il pavimento di colpo sprofondasse sotto il letto, che Clem ci riprovasse, che qualche vicino avesse avvertito la polizia e che facessero irruzione nella notte, a sgomberarci ‘per la nostra sicurezza’.

La mattina dopo ci ritrovammo in cucina insolitamente presto. Nessuno aveva avuto il coraggio di accendere il fornello per fare il caffè, così ce ne stavamo tutti semplicemente in piedi al centro della stanza, a fumare sigarette e mangiare pezzi di pane rimasti dai giorni prima. Clem dormiva ancora, tenuto a bada del sonnifero che gli avevamo dato la sera prima.

Facemmo una breve ispezione nel suo appartamento, in cerca di chissà quali focolari rimati nascosti sotto gli strati di oggetti. Spostammo vecchi telai di bicicletta, pezzi di armadi, lampade, gusci di televisori, cataste di pentole bruciate, libri marciti, specchi, ma non trovammo niente. Uscimmo da quel sepolcro affumicato e decidemmo di darci da fare immediatamente. O aggiustavamo quel muro in fretta, o prima o poi tutto sarebbe davvero venuto giù.

Un paio di noi rimasero dentro, a tener d’occhio Clem e la situazione, mentre io e gli altri uscimmo nel freddo bagnato della strada per andar a prendere i mattoni, la calce e l’intonaco. La mattina era gelida, ma le nuvole se n’era andate. C’era un aria tagliente e una luce fotografica che sembrava provenire da un enorme faro piazzato nel cielo. Passammo di fronte al posto in cui si nascondeva il cadavere congelato del nostro orto e mi venne in mente che, se mi fossi sbrigato a ripiantare tutto, forse saremmo riusciti ad avere un raccolto in primavera. Mi venne da sorridere.

Entrammo in un negozio di D.I.Y. a comprare calce e intonaco, poi andammo a rubare qualche dozzina di mattoni da un cantiere e prendemmo una pila di giornali invenduti lasciati fuori dalla porta di un’edicola. Tornammo a casa, forzammo al solito la porta e venimmo accolti da un caffè che qualcuno era andato a comprare alla mensa dei muratori lì vicino. Buttammo giù il caffè d’un fiato e poi andammo tutti insieme di corsa in cucina, spinti dalla paranoia che entro al fine della giornata il soffitto sarebbe crollato.

Un paio di noi si misero a preparare la calce, un altro cercava di capire come iniziare il lavoro sul muro, qualche altro sistemava gli attrezzi e qualcuno fumava appoggiato allo stipite della porta, giusto per mantenere uno sguardo esterno su tutta la faccenda. Io presi la pila di giornali e con un colpo di coltello da cucina tagliai la fascetta di plastica che li teneva insieme. Erano tutti del giorno prima, del 10 novembre 1989. Iniziai a separare le pagine e a metterle sul pavimento, per evitare che la calce e l’intonaco se ne andassero dappertutto sulle piastrelle. Ho sempre avuto uno strano rapporto coi giornali, lo stesso che ho con la televisione. Non li leggo mai, per principio, ma ogni volta che mi capita di averne uno tra le mani, non importa di che data, non riesco a staccare gli occhi dalle righe. Quella volta, però, vista la situazione, mi sforzai di mantenere un certo distacco e di concentrarmi soltanto sul separare le pagine e piazzarle una accanto all’altra per terra come fossero solo pezzi di carta qualunque. E poi, a un certo punto, apposta o no, presi uno dei giornali dalla parte sbagliata e la prima pagina mi si piazzò davanti alla faccia. C’era una foto di un muro pieno di graffiti e di un sacco di gente che ci saliva sopra. Il titolo diceva ‘Il muro è caduto!’.

‘Merda – dissi tra me – e noi non ne sapevamo niente… Questo davvero cambia tutto.’

Mi guardai attorno un attimo, cercando di incrociare lo sguardo di qualcuno per dirgli la notizia. Erano tutti al lavoro, e anche quelli che prima fumavano ora si erano messi a passare i mattoni ai ragazzi accanto al muro. Il faro nel cielo adesso sembrava essersi piazzato proprio di fronte alla nostra finestra e una luce obliqua disegnava i contorni di ognuno di noi sulla parete. Uno dei ragazzi alzò un attimo la testa dal secchio della calce e diede un’occhiata. ‘Ehi! Dai, muoviti. – disse – Che appena abbiamo finito andiamo a prenderci una birra e a comprare i semi per l’orto.’ Rimasi fermo ancora un secondo, con il giornale tra le mani.

Aveva ragione, cazzo.

Per noi, nel nostro fortino nel deserto di Peckham, era davvero cambiato qualcosa?

 

Federico Campagna 7 – 9 – 2009, London