Da soli non ci si rivolta: report dal meeting UniCommon, 12-13 maggio 2011, Roma.

 Gli scudi a forma di libro erano partiti da Roma – lo ricorderete – per fare il giro d’Europa e del mondo, sempre in prima fila nei cortei, con immenso successo. Ed è a Roma che bisogna tornare, per capire dove siamo rimasti. Non è un meeting che riguarda la sola Italia, quello a cui partecipo il 12-13 maggio, alla Sapienza, intitolato La rivolta di una generazione, dove la «generazione» è quella dei ragazzi senza futuro che in tutto il Vecchio Continente, negli Usa e nel Maghreb oggi si stanno risvegliando. Ma forse, in Italia più che altrove, questi ragazzi sembrano essere giunti a un bivio senza ritorno: diventare protagonisti di una sacrosanta rivolta, oppure restare per sempre in balìa di una politica spaesata e incattivita.

È il primo raduno di questo genere, in Italia. Decine i gruppi attivisti presenti, e sarebbero potuti essere dieci volte di più, se solo i media si fossero interessati a loro, anziché insultarli, a mezza voce, al primo sussulto di rabbia. Gli studenti scesi in piazza in questi mesi non hanno mai vissuto una Cool Britannia o un Viva Zapatero!. Nessun «periodo d’oro», insomma, ma vent’anni di stagnazione. Che difficoltà avrebbero, dunque, a trovare gli strati sociali ai quali rivolgersi, o i coetanei d’altri paesi con i quali allearsi, tanto vasto e generalizzato è l’odio verso parlamenti, banche e istituzioni d’ogni tipo?

Tutta questa aspettativa è galvanizzante, ma rischia anche di diventare anche un fardello troppo grande, insostenibile per questa generazione. Dio non voglia arrivino in soccorso i «fratelli maggiori» come me, troppo spesso compromessi, bravi solo a mediare col loro cinismo.

Invece guardo in volto questi ventenni, nell’assemblea sudaticcia del primo pomeriggio, e mi sembrano sempre stare in guardia, non sognatori ad occhi aperti insomma, e ad ogni modo provo solo rispetto. Il massimo che riuscivo a fare, quando avevo la loro età, con i miei «fratelloni», era dargli solo un’occhiata veloce, ed era come guardare in un oceano di arroganza.

Durante l’happening c’è l’occasione di offrire da bere a più d’un attivista, e qualcuno mi chiede se ho fatto le barricate o se sono un semplice curioso.

«Non hai mai visto un reporter senza bloc-notes?» domando a Mark Bergfeld, tedesco, della National Union of Students. «Scherzi? – mi fa, divertito – Niente di personale, ma io prendo nota anche delle virgole che volano qui».

Aspetto gli italiani al varco, abituato ai vecchi militanti napoletani che ti guardano con un’aria di compatimento, col cazzo che perdono tempo a raccontare storie a degli scemi come te, ma pare che non sia quel tipo di atmosfera: appena sentono che vengo da Londra, iniziano a chiedermi dell’assalto al Parlamento, di Carlo e Camilla terrorizzati, delle cariche a cavallo.

A proposito: c’è un trentenne inglese, si fa chiamare Tim, della rete UKUncut, con cui rivivo i giorni più dolci del recente passato, ad esempio lo scorso 26 marzo, quando mezzo milione di persone sono scese in piazza a Londra, su richiamo dei sindacati, e hanno occupato l’intero centro storico. Occupato, letteralmente. E cosa poteva fregargliene se dicevano che i cops avrebbero trovato la tattica per ributtarli fuori e recintarli. Già. Si è visto poi, non appena gli studenti hanno imparato a disperdersi, come fosse geniale la tattica della MET Police. Sei volte di fila l’hanno lasciata col fiatone, a consolarsi con la sua raccolta di teste sfasciate e paraplegici manganellati. «Ho ventisette anni», riflette Tim, «e non pensavo di vivere abbastanza a lungo da sentire l’Internazionale cantata a Piccadilly Circus».

Ma scendiamo di tono, gli dico, e non sottovalutiamo la più grande interprete di questo giochino del gatto-col-topo, la polizia italiana. Intatta dalle macchie che pure le hanno decorato la divisa, impermeabile a qualunque tentativo di riforma, sempre baciata dall’ispirazione, incantevole nello stile, esempio di educazione, grazie anche ad un sistema mediatico che la incensa con fictionappositamente dedicate. Troppo comodo, quando si giudica una rivolta, prescindere dalla disparità di forze in campo. E dalla necessità di sfuggire non solo alle armi del Potere, ma anche alla tentazione di imitare quel Potere.

Lasciamo a certi colleghi progressisti i soliti ammonimenti, l’imposizione del proprio vocabolario alla piazza, le proprie pensose interpretazioni: credono di stare dalla parte degli studenti, quando invece sono tra le oligarchie che li strozzano. Emanciparsi dai guru provvisori, questo è il primo passo, dai santoni e dagli opinionisti che da anni vogliono dettare tempi e leggi e dire quando la Primavera è finita, passate a noi la palla, e tutti a casa.

E infatti poi son venuti i lunghi mesi invernali, quelli in cui pensi che sarebbe meglio smetterla con ‘sto casino, ma come fare, se non hai pronto un altro mestiere, e intanto le maledette prediche diventano sempre più facili per tutti quelli che hanno già la morale pronta e il posto sicuro, e quei libri messi sugli scudi che da strumenti di interpretazione della realtà quali erano, parevano diventati lastroni di marmo sulla tua serenità borghese. Si va presto in pensione con la testa, vedete.

Ma d’improvviso accadeva qualcosa, nella sponda Sud del Mediterraneo, di cui si dovrà parlare ancora a lungo, una rivolta vera, con morti e feriti, e il mondo intero rivolgeva lo sguardo verso quei popoli che si liberavano dei loro bellimbusti in divisa. E c’è un pizzico d’invidia, inutile negarlo, per la decina di tunisini presenti al convegno, tra cui ho il piacere di conoscere Youad Ben Rejeb dell’Université Femministe e Wissem Sghaier dell’Union General Etudiant Tunisi; un po’ d’invidia, dicevo, perché almeno loro sanno bene come disegnare il volto che li opprime, il loro orizzonte di lotta, il loro obiettivo a breve termine, mentre da noi i bersagli hanno il colore stinto d’una mucillagine. Non basterà né a loro né noi, comunque, rimanere nella vaghezza degli slogan, poiché per realizzare una vera sinergia di lotta occorrerà anche trovare una sinergia teorica, strategica, e non solo iconografica. «Ci stiamo lavorando», mi assicura Francesco Raparelli di Unicommon, mentre altri già annunciano, nell’incredulità generale, un prossimo incontro proprio in Tunisia, in quella Sidi Bouzid dove scoppiò il primo focolaio.

Rita ed Enrique, due ventenni spagnoli, mi preannunciano che da lì a qualche giorno avrebbero invaso, con il loro gruppo Juventud sin futuro, le piazze di Madrid insieme ad altri indignados. L’indignazione, vorrei dirgli, è sacrosanta, ma anche una merce molto facile da usare. Ti fa sentire dalla parte della ragione, ti sottrae dai conti con te stesso, dalle tue complicità, dai tuoi limiti. Il movimento, se vorrà durare, non potrà non ridiscutere i sacrifici che ciascuno, nella lotta, dovrà affrontare. L’anarchismo, nel frattempo, è l’unica lingua che accomuna tutti, la più pura e anche la più evoluta: e la parola stessa, anarchia, non è più tabù o spettro per nessuno.

È sempre più chiaro, osservando questa Babele di inquieti, che il principale compito di noi fratelli maggiori non può essere che questo: difendere lo stupore e la curiosità di chi è «persuaso», e aiutare queste «zone liberate» a crescere. Sollecitare questa rete invisibile. Fare da mediatori di incontri, di collaborazioni. Rifiutando ogni autosufficienza, perché da soli non ci si rivolta. Fare in modo che tra i lacrimogeni, gli accampamenti e l’odore di plastica bruciata gli studenti romani conoscano gli anarchici inglesi, gli ambientalisti svedesi conoscano gli operai greci, i colti conoscano i meno colti e chi non ha mai lavorato conosca chi lotta per il lavoro.

In autunno ci sarà da accogliere una rivolta per quello che è: senza prediche arroganti e teorie pretestuose; e poi, solo dopoesserci entrati, consumando le suole e la voce insieme agli altri, persino prendendo il freddo e le manganellate insieme agli altri, cercare alleanza con chi chiede giustizia. Questo è ciò che possiamo fare meglio e che può, perché no, anche appassionarci e divertirci di più.

 

Articolo pubblicato col titolo: Chiedi al ’68 se non sai come si fa, in Rolling Stone n.93, Luglio 2011.