Sperperare: la tesi dell'opportunismo irriverente

Fino a oggi avete creduto che ci fossero i tiranni!
Ebbene, vi siete sbagliati, non ci sono che schiavi:
laddove nessuno obbedisce, nessuno comanda.
Anselme Bellegarigue, 1850
 
 
Promesse
Perché la gente lavora? Se non per follia, lo fa per denaro. E perché ha bisogno di questo denaro? Per comprarsi la libertà dal lavoro. La logica di questa correlazione è lo stessa alla base del desiderio del povero di avere denaro al fine di sfuggire all’ossessione per i soldi, o del bisogno di un lavoro da parte del disoccupato al fine di liberarsi dall’ossessione per un impiego. La maggior parte degli esseri umani vive e funziona all’interno della logica della società contemporanea col solo fine di poterne di evadere.
 
Ma come può il desiderio di libertà trasformarsi in un meccanismo perpetuo e schiavizzante? All’interno del panorama contemporaneo la risposta va trovata nel modo in cui il capitalismo riesce a prendere le nostre richieste alla lettera e a restituircele realizzate, anche se lievemente modificate. Quella minima modifica, come sappiamo, è la piccola pillola avvelenata che trasforma le nostre richieste “esaudite” in catene ancora più strette. È così che nel corso degli anni il capitalismo ha realizzato le rivendicazioni sulla flessibilità del lavoro, sulla liberazione sessuale, sulla democrazia e via dicendo. Il capitalismo ci dà sempre ciò che vogliamo, ma lo fa in modo tale da confermare gli oscuri moniti del vecchio detto “Fai attenzione a ciò che desideri”.
 
Nel caso della libertà dal lavoro e dal denaro, la pillola avvelenata è la sublimazione del nostro desiderio in una promessa. La più pura delle promesse: un ideale imperituro e infinitamente sfuggente. Osserviamo come i principali media capitalisti dipingono la ‘bella vita’ alla quale tutti dovremmo aspirare. Com’è la ‘good life’ in un film hollywoodiano o in una rivista di celebrità? In genere è una vita dove non si lavora e dove non c’è bisogno di denaro. Paradossalmente, la promessa di ‘farcela’ nel discorso capitalista implica l’uscita dalla gabbia del capitalismo.
Nella realtà, ovviamente, non saremo mai in grado di guadagnare abbastanza da poterci svincolare dal lavoro, nè saremo mai in grado di lavorare abbastanza da liberarci dall’ossessione dei soldi. La libertà rimane sempre qualche anno di ufficio più in là, qualche zero più in là sul conto corrente. E noi rimaniamo incastrati in un circolo vizioso, sempre a inseguire qualcosa, sempre a sperare.
 
Speranza
La speranza, un mostro che abbiamo già incontrato. Nelle religioni, per esempio, e soprattutto nella religione della rivoluzione, l’ennesima carota in fondo al bastone – un bastone frutto dello stesso duro lavoro e autosacrificio invocati sia dai cristiani che dai capitalisti. Nel discorso delle sue chiese decrepite, la rivoluzione è ancora presente come la più leggera delle promesse. Come la promessa eterea di Hollywood, la rivoluzione agita davanti a noi uno scenario cinematico di piaceri sconosciuti. Un paradiso che è sempre un po’ più distante lungo l’impervia strada dell’opera rivoluzionaria. Mancano solo pochi passi, solo pochi libri, solo poche tessere di partito… Come per il capitalismo, è solo grazie all’infinita procrastinazione della speranza che il discorso rivoluzionario può sostenere il volo implausibile delle sue promesse. Davvero implausibile, se consideriamo come sua la concretizzazione storica sia stata poco più che una sequela di sconfitte e massacri, con l’emergere occasionale dell’incubo totalitario.
 
Dal punto di vista economico, potremmo interpretare lo stock immateriale di speranza, generosamente distribuito dalle istituzioni capitaliste e ‘rivoluzionarie’, come la retribuzione ai loro operosi adepti. Un compenso che ricorda quello del leggendario Hasan-i Sabbah, il primo capo della setta degli Assassini, che ripagava in hashish gli adepti inviati in missioni pericolose. Come una droga, la speranza chiama altra speranza, all’infinito. Al punto che, nel momento in cui una vita volge al capolinea e il terreno della speranza va sparendo sotto i piedi dell’indefesso credente, diventa necessaria l’iniezione della dose più massiccia: la speranza nel benessere futuro della propria famiglia, per il lavoratore sotto il capitalismo, o la speranza per la futura emancipazione dell’umanità, per l’artefice della rivoluzione.
 
In questo mondo di lavoratori ingannati, nutriti a speranza e grondanti dolore, è importante trovare l’equazione che tiene insieme il circolo lavoro-speranza-lavoro. Il suo algoritmo è insito nella struttura di una promessa: il trucco di magia capace di caricare le azioni presenti di un valore arbitrario, da riscattare come un investimento in un futuro ipotetico, senza che necessariamente esista una qualunque correlazione razionale fra il tipo di azione richiesta e il presunto valore da questa derivato. Una promessa è un numero di ipnotismo che sbalordisce e seduce, stringendosi come un corsetto atttorno al suo pubblico credulone.
 
Lo sperpero
Ma non c’è promessa senza antidoto.
Nel corso del tempo, l’antidoto in questione è stato in grado di neutralizzare non solo le promesse del capitalismo e della rivoluzione, ma anche altre, più antiche e più allettanti. Non è un caso che il suo nome sia carico di connotazioni negative: lo sperpero.
 
Nel Sud d’Italia l’arte dello sperpero è stata per secoli il diletto dei membri dell’aristocrazia. Una volta ereditata la fortuna di famiglia, un gran numero di aristocratici meridionali rispondeva con lo sperpero alle mefitiche promesse di onore, ricchezza e status. Niente a che vedere con la pratica indigena del potlach, in cui beni privati sono distribuiti o distrutti al fine di rafforzare lo status sociale dei proprietari: l’etica aristocratica nutre (specialmente nei suoi periodi di decadenza) una repulsione innata nei confronti sia della ricchezza che delle norme sociali, soprattutto quelle di status. La dilapidazione aristocratica del patrimonio di famiglia faceva parte sia di una ricerca di piacere individuale, sia di un percorso di liberazione dalle costrizioni imposte dal propio ruolo sociale. Attraverso lo sperpero, gli aristiocratici rompevano quella promessa di rispettare il proprio nome e la propria eredità, che li avrebbe altrimenti resi schiavi del proprio ruolo e trasformati in semplici replicanti dell’ordine aristocratico. La ‘fortuna’, del resto, è da sempre associata, non solo etimologicamente, sia alla ricchezza materiale sia al fato o al destino del singolo. L’impatto dello sperpero sulle sorti  dell’aristocrazia del Meridione è evidente, se si guarda al destino storico della più rispettosa aristocrazia inglese: mentre l’Italia ha perso la sua tradizionale aristocrazia fondamentalmente a causa di un processo di attiva autodistruzione[1], l’Inghilterra tutt’oggi mantiene la propria ancora saldamente all’interno della propria classe dirigente.
 
Come applicare l’arte dello sperpero alla nostra situazione attuale?
Anziché guardare ai beni materiali, dovremmo concentrarci su quell’immenso, traboccante stock di speranza che abbiamo accumulato in anni di duro lavoro, tanto come dipendenti che come ‘rivoluzionari‘. Eccola lì, la nostra ‘fortuna’ da spereperare!
 
Come la ricchezza monetaria, la speranza si basa sull’accettazione di una serie di convenzioni sociali che associano misure di valore a oggetti simbolici, arbitrariamente scelti. Nel caso della speranza, tuttavia, questa assegnazione di valore non è diretta a oggetti materiali, come con la valorizzazione dell’oggetto moneta, ma a azioni, concepite come contenitori immateriali di valore. Attraverso l’accettazione di questa ‘promessa sistemica’, le nostre azioni si caricano di una certa quantità di speranza: lavorando un certo numero di ore possiamo aspirare a una certa quantità di libertà dal lavoro; militando diligentemente per un certo numero di anni possiamo aspirare a un più rapido avvicinamento all’utopia rivoluzionaria, e così via.
 
Così come la moneta funziona come mezzo di scambio solo all’interno di un sistema monetario, la merce-speranza non è spendibile al di fuori di quello stesso sistema che ha creato la promessa che l’ha generato in primo luogo. La produzione, acquisizione e accumulazione di speranza non porta mai a un’uscita dal sistema della promessa – ovvero alla sua realizzazione e al raggiungimento della propria libertà – poiché è destinata a riprodurre lo stesso sistema ad libitum.
Inoltre, col passare degli anni, si finisce per aver investito così tanto tempo ed energia nell’acquisire il proprio stock di speranza da non aver più il desiderio di perderlo tutta in una volta con l’effettiva realizzazione della sua promessa originaria. Un processo perverso che spiega, almeno in parte, la vocazione solo apparentemente assurda alla sconfitta di gran parte dei movimenti rivoluzionari contemporanei. Che ne sarebbe della speranza rivoluzionaria dei militanti, se mai la rivoluzione dovesse essere fatta?
 
 
L’opportunismo irriverente
È a questo punto che l’arte dello sperpero torna estremamente utile. Sperperare la speranza, come sperperare il denaro, è innanzitutto un atto irrispettoso. Se la parola rispetto – dal latino respicere – è etimologicamente associata all’atto di ‘guardare indietro a’ qualcosa, la mancanza di rispetto è l’atto di non guardare indietro, bensì di distogliere lo sguardo da qualcosa. Non rispettare una promessa, per la persona a cui viene fatta, significa distogliere lo sguardo dai trucchi dellospettacolo valorizzante messo in atto da quella stessa promessa.
 
In questo senso, un atteggiamento irrispettoso contiene un forte elemento opportunista. L’opportunismo – ovvero l’attitudine che privilegia il cogliere le opportunità disponibili piuttosto che l’obbedire alle tradizionali norme di comportamento – è l’atteggiamento naturale di un individuo libero dalle costrizioni normative di tutte le promesse sociali. Un individuo libero dall’illusione della promessa – ovvero un a-teo o un ana-archico – è chiaramente incline a percepire le proprie possibilità d’azione come opportunità desiderabili o meno, anziché come doveri o investimenti morali socialmente accettabili o prescritti.
 
Davanti alla promessa di garantire la libertà attraverso il lavoro, i dilapidatori di oggi rispondono con la comprensione del lavoro per ciò che davvero è: un’umiliazione quasi inevitabile dalla quale si dovrebbe prendere tutto il prendibile, in accordo con i propri sogni, desideri e necessità. Anziché cadere nella dicotomia fra il rifiuto assoluto dell’attività sotto il capitalismo – tipico del pauperismo ascetico o new age – o l’assoluta sottomissione alla sua legge – tipica del fervente lavoratore in carriera – l’opportunista trova un passaggio a nordovest fra questi terreni così impervi. L’opportunista può decidere di comportarsi da professionista per un po’, se questo rientra nel suo interesse, e puòpersino sottomettersi alle regole della gerarchia del posto di lavoro, per quanto solo temporaneamente e formalmente, se ciò lo/la dovesseaiutare a raggiungere i propri obiettivi. Nel suo rapporto con il lavoro, l’opportunista si libera da qualsiasi questione di vergogna sociale o d’incoerenza ideologica, per seguire invece un pragmatismo a sangue freddo: qual è il comportamento più utile da seguire, per realizzare meglio e nel minor tempo possibile i propri obiettivi, ovvero i propri sogni, desideri e necessità?
 
Essendo realisticamente difficile sfuggire alle maglie del mondo del lavoro, l’opportunista vi entra con l’animo del predone e la spietatezza dell’imbroglione. Il dono dell’onestà, e soprattutto quello di presentare pubblicamente i propri, reali obiettivi e le proprie reali ragioni, invocato in modo così miope da tanti radicali, dovrebbe essere riservato ad altri spazi più meritori. Al lavoro dovremmo riservare invecetutte le bugie che abbiamo. Abbiamo imparato da un pezzo e sulla nostra pelle il dolore di essere ingannati e sfruttati: dovremmo riservare lo stesso tipo di trattamento ai nostri peggiori nemici, il capitalismo e il lavoro. L’opportunismo è dunque una forma di violenza pratica, quotidiana, da usare contro i nostri nemici strutturali, con lo scopo di raggiungere una vittoria che non è quella di una libertà evanescente, ma piuttosto di uno stato immediato di autonomia per se stessi.
 
Dobbiamo cogliere i prodotti materiali e immateriali del capitalismo che sono alla nostra portata e sfruttarli senza ritengo, sperperarli, farci un giretto e poi mollarli una volta usati. Possiamo trovare ispirazione nelle rivolte dei ‘consumatori’ di Londra, dell’agosto 2011. Nonostante le dotte analisi di molti saccenti opinionisti, è davvero improbabile che i saccheggiatori londinesi pensassero davvero di poter rubare e tenersi per sempre il frutto delle loro razzie. Credo piuttosto che abbiano avuto lo stesso atteggiamento con cui un aristocratico avrebbe espropriato un cavallo da uno dei suoi sudditi, solo per cavalcarlo per un giorno e poi abbandonarlo. Si è saccheggiato per il gusto di farlo, e magari per provare delle scarpe da ginnastica o degli stereo per un giorno e poi rivenderli o buttarli via. Giustamente, molti giornalisti del mainstream hanno definito quei giorni di rivolte come anarchia: l’anarchia non è altro che l’aristocrazia per tutti.
 
La violenta arte dello sperpero non continene alcuna traccia di ironia. I dilapidatori oppongono alla rassegnazione ironica – con la sua distanza fra oppresso e oppressore, che permette il mantenimento dell’oppressione stessa fra sorrisi disarmati – un vero e proprio sfondamento all’interno del territorio nemico: l’entrata furiosa del razziatore, non quella del turista; l’arrivo dissimulato della spia, non quello del prigioniero.
 
Lo sperpero è un affare serio, che richiede la concentrazione necessaria a maneggiare beni pericolosi e carichi di promesse senza cadere nella loro stessa trappola. È necessario un misto di deliberata ignoranza – dei valori e delle promesse dispiegate intorno a noi dai nostri avversari – e un costante approfondimento della comprensione dei propriobiettivi e di quelli condivisi con i propri compagni.
 
Lo stesso atteggiamento funziona a meraviglia rispetto al discorso sulla rivoluzione. Dovremmo entrarci come dei selvaggi entrerebbero in una biblioteca: bruciando i libri che non servono a niente, rubando le pagine che offrono parole utili, travisandole se necessario. Dovremmo prendere gli idoli dei vecchi rivoluzionari, allinearli al muro come fossero statue di santi, e decapitarli: per la testa di un santo non c’è luogo migliore che in cima a un bastone. Noi non giureremo la nostra ubbidienza a nessuna linea di partito o a nessuna tradizione gloriosa, però sfrutteremo a nostro vantaggio qualsiasi situazione di rivolta sociale creata da presunti rivoluzionari: se c’è qualcosa per noi, ce la prenderemo senza firmare moduli o fare il saluto.
 
Per affrancarci dagli imperativi fraudolenti della rivoluzione e dalla paralisi dell’interminabile attesa della parousia – interrotta occasionalmente dallo spettacolo patetico di manifestazioni impotenti o di assemblee di autoassoluzione – noi opportunisti dovremmo rifiutare l’estenuante solfa del ‘cambiare il mondo’. Cambiare le nostre vite sarebbe già molto! A che pro sacrificare le nostre vite per le impossibili rivendicazioni del nostro superego rivoluzionario, se, da atei liberi da promesse, non crediamo che dopo la morte ci aspetti una vita celestiale? E poi, se Marx credeva (erroneamente per quel che ne sappiamo oggi) che il raggiungimento dell’emancipazione da partedel proletariato avrebbe liberato l’umanità, noi possiamo certamente replicare che il raggiungimento ad ogni costodella propria emancipazione da parte dell’individuo, fornirà a tutti gli altri individui che compongono l’umanità l’esempio di come liberarsi. Naturalmente solo se questi lo volessero veramente, perché l’emancipazione non può mai essere data, ma solo conquistata.
 
Disertori e schiavi
Nella guerra condotta per secoli contro gli esseri umani da parte del regime del lavoro – sotto diversi nomi,quali capitalismo, rivoluzione e così via – faremo la parte degli ignobili disertori che razziano le armerie e le cucine militari. Se dovessero prenderci, saremo lesti anasconderci, a adottare un travestimento o, se necessario, a distruggere i nostri avversari. E tuttavia, mai, in nessuna circostanza, proveremo a convincere nessuno della correttezza della nostra posizione o, peggio ancora, a cercare di portarlo dalla nostra parte. Per quanto non dobbiamo nessun rispetto ai nomi astratti dei nostri avversari o alle loro macabre credenze, dovremo essere ancora in grado di guardarci allo specchio e riconoscercicome innocenti da ogni possibile crudeltà. Niente vi è di più crudele che cercare di cambiare l’opinione di qualcuno o di impossessarsi della sua autonomia mentale o del suo libero arbitrio. Anche davanti a degli schiavi non dovremo intervenire: liberarli sarebbe il peggior atto di crudeltà, oltre che una mossa molto pericolosa. È garantito che gli schiavi liberati – che non si sono liberati da soli attraverso la propria lotta – saranno i primi a trasformarsi nella polizia segreta e nelle guardie carcerarie dell’incubo post-rivoluzionario.
 
I cani randagi, quando s’imbattono nei loro consimili addomesticati, magari la guardia delle case dei padroni, non perdono tempo a sfotterli o a scambiarsi opinioni. Girano loro intorno, in silenzio, e, appena possibile, rubano loro il cibo.

 
 
Questo testo deriva da una conversazione con Alessio Kolioulis
 
 
 

[1]L’aristocrazia italiana erain effetti già decaduta molto tempo prima che le leggi del 1945 abolissero ufficialmente i titoli nobiliari.