Carlo aveva fatto quel volo decine di volte. Milano, New York, Milano, New York, Milano... In business class, ovviamente. Come un dio da sala d’aspetto. Li facevano imbarcare per primi, loro. E gli davano il vino, mica i succhi di frutta. Del resto il viaggio era la parte migliore. A New York non c’era niente ad aspettarlo, a Milano non c’era nessuno a dirgli arrivederci. Però quella era la vita che voleva. A venire da una famiglia divorziata in un paesino di provincia, si ripeteva con un sorriso, le ambizioni si possono misurare con la carta di credito.
Quando il volo di quella sera prese a sobbalzare nel cielo, Carlo si voltò un attimo per sbirciare quelli dell’economy class. Loro si agitavano già, i poverini. Magari era la prima volta che prendevano un aereo. Chissà, poi, che avevano da perdere. Se anche l’aereo fosse caduto, cosa si sarebbero lasciati alle spalle? Magari un mutuo, una figlia insopportabile e un lavoro di merda. Qualche camicia firmata, se gli andava bene. Ma di quelle con le firme grosse tatuate di fronte, da far vedere.
Quando il volo sobbalzò più forte, Carlo prese in mano il bicchiere di vino bianco. Macchiarsi i pantaloni era fuori questione. Aprì un libro e dopo qualche istante si guardò attorno per vedere se c’era qualcuno che avrebbe potuto notare il titolo. I suoi compagni di business class sembravano più interessati alle hostess che alle sue letture. Chiuse il libro e aprì il menù di bordo. Ordinò un panino al salmone, uno yogurt e una mela.
Carlo aveva la testa rotonda, alla Charlie Brown, con i capelli tagliati corti per evitare il ridicolo del riporto. Aveva anche la pancia rotonda, ma solo per modo dire. Era di una forma ovoidale, larga ai lati e bassa al centro. Quando si allungava sul sedile gli spuntava fuori dalla camicia e si vedevano dei peli lunghi e neri attorno all’ombelico. Si svegliò di colpo dal torpore d’aereo e chiese una coperta.
Il volò andò avanti, nel nulla della notte che diventa nulla geografico via via che ci si inoltrava nell’oceano. A giudicare dalla luce fosforescente delle ali, c’erano nuvole sull’oceano. E pioggia grossa, come se l’acqua di sotto e quella di sopra si volessero unire a metà strada. Un lampo, vicinissimo. Qualcuno in economy class si svegliò e fece un risolino isterico. L’aereo spense tutte le luci. Le riaccese. Carlo accese l’ipod. Uhm... Jamiroquai. Se doveva finire così, in mezzo all’oceano, voleva che almeno fosse con la musica giusta.
E poi le luci si spensero, e non si accesero più. C’era qualcosa che non andava, nel modo in cui l’aereo scendeva rapidamente di quota e le hostess si muovevano avanti e indietro come galline decapitate. Carlo era eccitato. Si toccò il cavallo dei pantaloni, per controllare che tutto il corpo seguisse il suo umore. Forse era quello, forse era il momento. I compagni di business class si erano svegliati tutti, e avevano le facce terree da post-alcool e da paura. Carlo sorrise al vicino della fila accanto, regalandogli il suo migliore sguardo di superiorità. Il vicino fece una smorfia e si aggrappò al bracciolo del sedile. Anche le hostess avevano smesso di sorridere. Si erano strette in un gruppetto alla testa dell’aereo, attaccate al telefono che le collegava coi piloti. I campanelli di chiamata dai sedili si accendevano uno dopo l’altro, come gli squilli delle macchine in un reparto di terapia intensiva.
Carlo capì, mentre l’economy class lasciò che fossero gli uomini incravattati nelle file di fronte a gridare per primi. Si slacciò la cintura di sicurezza e sistemò la camicia nei pantaloni. Una hostess si mise a piangere e nessuna collega la consolò. I piloti non si erano nemmeno degnati di dire ai passeggeri perché il suono dei motori fosse diventato una sirena. Carlo si alzò e fece un paio di passi indietro, verso le tendine che separavano le due classi dell’aereo. Le aprì. In economy class c’erano almeno una quarantina di file, con sedili su tre file, tre posti per fila. Si aggrappò allo schienale di un sedile, sotto lo sguardo di un passeggero paralizzato dalla paura, e fece un rapido calcolo mentale. L’aereo era quasi pieno. Ci dovevano essere circa duecento persone a bordo.
Carlo tornò a sedere al suo posto, mentre i bicchieri di vino e di succo di frutta si mischiavano sul pavimento e le urla della business e dell’economy class facevano più o meno lo stesso rumore. Poi si sentì un botto, che per un momento zittì tutti. Un motore doveva aver preso fuoco, visto che dai finestrini del lato sinistro dell’aereo adesso filtrava una luce arancione. Nella penombra fiammeggiante, gli occhi color nocciola di Carlo presero il loro colore migliore, quella sfumatura di marrone così lucente da essere nera e trasparente allo stesso tempo.
Carlo si aggiustò sul sedile, e alzò il volume del suo ipod. Jaimoroquai forse era passato di moda, ma gli ricordava ancora quelle sere di provincia, prima di reincarnarsi nelle grandi città e nei soldi, quando in discoteca tutti ballavano e lui batteva il ritmo con un piede e succhiava i cocktail con la cannuccia di plastica. Era stato allora, sotto le luci mediocri della sua gioventù, che aveva avuto l’intuizione che lo avrebbe accompagnato per il resto della sua vita. Finirà così, si era detto, con i miei piedi che battono per terra e tutti attorno che ballano, con i miei occhi che si chiudono per sempre e tutti attorno che ridono.
Sotto le luci celestiali delle nuvole attraversate dall’incendio dei motori, Carlo chiuse gli occhi. Aveva voglia di addormentarsi, come quando si sogna qualcosa di buono e non lo si vuole lasciar scappare. Non si concesse di sorridere, solo per non scomporre il suo viso pingue, perfettamente composto e sereno. Calcolò ancora il numero dei passeggeri, rifacendo le moltiplicazioni delle file e dei sedili. E pensare che era sempre stato sicuro che sarebbe morto solo.