Ormai da anni l’Italia berlusconiana sembra dividersi tra i difensori strenui della Costituzione e quelli che la ritengono una reliquia di un’epoca passata. Che sia usata come scudo, arma o anatema, comunque, la Costituzione viene ancora unanimemente considerata il cardine, anche solo simbolico, di quello che può essere chiamato il ‘contratto sociale’ degli italiani. Eppure, al di là degli strepiti di questa infinita polemica, resta un particolare tutt’altro che irrilevante: ci sono ampie zone d’Italia, quale l’intero meridione, in cui questa Costituzione non sembra avere mai veramente attecchito.
Per quanto rimosso, questo fatto non dovrebbe destare sorpresa, specialmente alla luce del modo in cui questa Costituzione ebbe origine. La Costituzione Italiana nacque da una delle due guerre che attraversarono simultaneamente il territorio nazionale negli anni ’40 del ‘900. Da un lato la seconda guerra mondiale, combattuta in particolare nelle zone attorno Roma dagli eserciti degli ‘Alleati’ contro quelli della ‘Asse’, e dall’altro la guerra civile e di resistenza, combattuta nel nord del paese tra i reparti partigiani e le truppe nazifasciste. Ovviamente, fu soltanto da quest’ultima che la Costituzione Italiana ebbe origine: fu solo grazie al travolgente spirito ideologico della lotta di resistenza, che gli autori della Costituzione riuscirono a infondere la lettera morta della legge con una carica etica in grado di creare un documento su cui fondare una nuova comunità.
Se la nascita della Costituzione è così strettamente legata a un’esperienza che ha riguardato soltanto il centro-nord del paese, dunque, sembra avere perfettamente senso che il meridione ne sia nei fatti così distante. Nel Sud Italia la legge dello Stato non é, né é mai stata in alcun modo, la formalizzazione di un’esperienza etico-politica condivisa, ma piuttosto la parola normativa di un potere esterno. Ovvero, come da sempre nella storia di quelle terre, la voce di un ennesimo potere coloniale.
Quello che in molti denunciano come la mancanza di senso civico al Sud è nei fatti il tipico comportamento di una popolazione colonizzata: disaffezionata, sciatta, irresponsabile e parassitaria non appena possibile. In molte zone del sud Italia, poi, a questo potere coloniale dello Stato Italiano si aggiunge quello parzialmente clandestino e tuttavia invasivo delle Mafie.
Al di là della lettura aprioristicamente criminalizzante promossa dallo Stato Italiano, la Mafia può essere obiettivamente descritta come un potere economico di portata internazionale, che agisce con pratiche più o meno illegali e che insiste sul suo territorio di riferimento secondo logiche feudali e pseduo-tribali. Nonostante le sue origini si facciano spesso risalire a una resistenza nei confronti dello Stato Italiano, la condizione contemporanea della Mafia assomiglia più a quella di una corporation parzialmente militarizzata e dal bizzarro organigramma, che a quella di un vero e proprio ‘contropotere’ territoriale. Se anche nel periodo rurale delle sue origini, soprattutto in Sicilia, la Mafia aveva avuto degli elementi di autogestione popolare, a partire dagli anni ’50 del ‘900 questo aspetto é andato rapidamente sparendo. La Mafia ha preferito separarsi dalla popolazione, consolidandosi invece come un network economico organizzato gerarchicamente, all’interno del quale ogni elemento politico ha rilevanza soltanto in quanto strumentale a un vantaggio economico. Contrariamente a quanto sostiene la tesi che vede la Mafia come un sedicente anti-stato, le sue ambizioni non sono mai state veramente di tipo politico.
Schiacciate sotto il doppio peso di questi due poteri, statale e mafioso, a cui né partecipano né appartengono, le popolazioni del Sud Italia si trovano dunque a vivere come profughi sulla loro stessa terra. Niente riesce a descrivere meglio questa condizione, della dissennatezza disamorata con cui gli abitanti di questi luoghi trattano l’ambiente in cui vivono e in particolare gli spazi pubblici.
Come potrebbero invece queste genti colonizzate trasformarsi da popolazioni in popoli, ovvero in comunità unite da un contratto sociale condiviso, e a cui ‘appartengano’ (per quanto questo sia possibile) i territori su cui vivono? L’esempio della nascita di una Costituzione nel nord Italia non sembra lasciar dubbi al riguardo: é soltanto attraverso una guerra di auto-liberazione che gli individui e le popolazioni sono in grado di mettere in atto quella magia che riempie le leggi di un contenuto etico e le trasforma in regole possibili per una convivenza autenticamente condivisa e autonoma. Così come per la necessità di una partecipazione diretta alla vita politica, non vi é alternativa a una partecipazione diretta delle donne e degli uomini di questi territori a questa guerra.
Una guerra, sì, e non in senso metaforico. Del resto, sono decenni che lo Stato Italiano e la Mafia, si fanno guerra l’un l’altro sulla strade del territorio di cui si sentono padroni, sempre in nome ma mai per conto degli abitanti stessi. Senza dover tornare ai tempi fascisti dell’offensiva scatenata in Sicilia dal prefetto Mori, gli anni ’90 del ‘900 videro questa stessa guerra dispiegarsi nel modo più esplicito: da un lato, il tritolo dei cosiddetti Corleonesi, dall’altro l’occupazione militare dell’operazione ‘Vespri Siciliani’. Mai come allora le vere nature dei due poteri territoriali si rivelarono nella loro reale distanza dalla popolazione, al punto che le manifestazioni di quegli anni, nelle strade di Palermo, ebbero come simbolo i famosi lenzuoli bianchi: il grido disperato di una popolazione che chiedeva a quegli eserciti essenzialmente stranieri di smettere di combattere sulla loro terra. Il modo in cui quella guerra finì é tristemente noto a tutti: Mafia e Stato trovarono un accordo, che presto si trasformò in attiva collaborazione all’interno del quasi-ventennio berlusconiano.
E tuttavia, la narrativa di quella guerra ormai finita sembra rimanere ancora un elemento irrinunciabile nelle politiche applicate al sud Italia. I due eserciti restano ancora ben accampati nelle loro posizioni, e entrambi ancora invitano la popolazione a prendere posizione per un lato o per l’altro con comportamenti di tipo delatorio. Alla Mafia si risponde con le denunce alla polizia, dice lo Stato. Agli infami che collaborano con lo Stato si risponde con la denuncia ai capi-mandamento, dice la Mafia. Pur nelle loro differenze, entrambi i poteri concordano su un punto: la popolazione deve essere complice e al contempo restare immobile, definitivamente impotente, completamente disarmata.
E se invece ci fosse un’altra strada possibile? Prendiamo il caso dei soprusi mafiosi e della riscossione del racket. Cosa accadrebbe se i negozianti presi di mira decidessero di non pagare il pizzo né di andare dalla polizia, ma invece imbracciassero le armi e rispondessero alla violenza con la violenza? Si stima che 5000 uomini in armi controllino per conto della Mafia i 5 milioni di abitanti della Sicilia. Quanti moderni partigiani ci vorrebbero per sconfiggere militarmente 5000 sgherri? Se si trattasse di persone nate e cresciute nei luoghi in cui vivono, a conoscenza di ogni segreto, certamente ne servirebbero molte meno delle decine di migliaia di truppe coloniali in divisa impiegate dallo Stato Italiano. La guerra alla Mafia non può che essere un’insurrezione armata di una popolazione che si auto-organizza. Del resto, se la guerra di liberazione del nord Italia negli anni ’40 fosse stata demandata alle truppe di invasione degli Alleati, cosa sarebbe oggi l’Italia se non una colonia Americana o Britannica?
Ovviamente, nel caso del dominio mafioso ci sono anche una serie di elementi culturali da tenere in considerazione. Ma, nonostante il parere di molta facile letteratura al riguardo, la cultura in questione ha per la più parte a che fare, appunto, con il problema stesso del dominio e della sua accettazione da parte di una popolazione inerte. Non é certo con un’azione di guerra che si crea una nuova cultura, ma la storia insegna che spesso é solo in questo modo che una cultura profondamente e radicalmente democratica trova il modo di venire alla luce. Per dirla in altri termini, il desiderio di autodeterminazione e di giustizia dei contadini messicani preesisteva certamente (seppure muto) alla guerra di Zapata e Villa, ma fu soltanto grazie e durante quest’ultima che trovò la possibilità di trasformarsi in una reale forza storica.
Cosa fare invece con le truppe di invasione coloniale dello Stato Italiano? Qui la questione si fa più delicata. Come ricordava recentemente Noam Chomsky a proposito della lotta armata: ‘se arrivate con un fucile verranno con un carroarmato, se avrete un carroarmato verranno con un B52’. La disparità militare tra la popolazione del Sud Italia e le forze dello Stato Italiano spinge necessariamente a considerare un altro tipo di azioni. Al di là della via parlamentare, foriera da sempre di magri risultati, varrebbe dunque la pena di considerare l’esempio di una delle più efficaci lotte di liberazione dal dominio coloniale del XX secolo: quella dell’India di Ghandi. Molto lontana dalla vulgata liberal-pacifista, la lotta guidata da Ghandi aveva sì caratteri di non-violenza, ma solo per quanto riguardava la violenza perpetrata sulle persone. I sabotaggi a danno delle proprietà Britanniche, invece, non mancarono affatto e furono certamente di intensità tale da fare impallidire le marachelle dei Black Block contemporanei.
Ad ogni modo, tale scelta non-violenta nei confronti del colonialismo Italiano resta soltanto una scelta di tipo strategico piuttosto che etico. Forse che Garibaldi e le sue truppe ‘liberarono’ la Sicilia col semplice suono della loro voce? Capita spesso di dimenticare la violenza dei vincitori, soprattutto quando entrano a far parte dell’olimpo dei santi e degli eroi. Così come é stato facile dimenticare la violenza usata dal luogotenente di Garibaldi, Nino Bixio, nei confronti dei contadini di Bronte. Nell’agosto del 1860, alla testa di due battaglioni di eroiche camicie rosse, Nino Bixio ritenne opportuno reprimere nel sangue la rivolta dei contadini della cittadina siciliana, insorti da qualche giorno contro i latifondisti e gli aristocratici di cui sopportavano il giogo da secoli. La colpa di quei bifolchi zappaterra, ovviamente, era stata di aver confuso la colonizzazione con la liberazione. E di averlo fatto così ingenuamente che, quando Nino Bixio si fece loro incontro con le sue truppe, lo accolsero disarmati e a braccia aperte, credendolo un alleato.
Ecco, è esattamente da quel punto che bisogna ricominciare, oggi, nel sud Italia, e in particolare nell’isola morta di Sicilia. I cadaveri di Bronte hanno ancora qualcosa da insegnarci. Come il fatto che gli analfabeti possono avere un senso di giustizia sociale più forte di quello dei soldati e dei poliziotti. O come il fatto che solo le rivolte armate possono avere la possibilità di spezzare il giogo di secoli di oppressione. Ma soprattutto, come il fatto che una volta finito con i baroni locali, é necessario tenere le armi in pugno e aspettare l’arrivo dei ‘liberatori’. Le loro baionette scintilleranno come sorrisi, ma avranno la lama rivolta in fuori. Ed é con lo stesso sorriso e con la stessa lama che bisognerà attenderli. Senza la vergogna di tutti quegli oppressi che da sempre evitano l’uso della violenza, anche soltanto per tenersi un po’ di superiorità morale nella loro miseria. Come scrisse Nelson Mandela nelle sue memorie: ‘É sempre l’oppressore, non l’oppresso, che determina la forma della lotta. Se l’oppressore utilizza la violenza, l’oppresso non ha altra scelta che rispondere con la violenza’.