Fin dal tredicesimo secolo la piazza di Bologna è un posto politicamente significativo, quindi bene ha fatto la FIOM a sceglierla per iniziare una nuova fase e per anticipare lo sciopero nazionale dei metalmeccanici che avrà luogo domani. Si comincia con uno sciopero pienamente riuscito in tutte le fabbriche metal meccaniche della regione (percentuali che stanno intorno all’85%) un corteo di cinquantamila e forse più, una partecipazione studentesca imponente. Vedremo domani cosa accade in tutto il paese, ma un paio di cose ormai possiamo dirle.
La prima è che i metalmeccanici, come altre volte nei decenni passati, sono avanguardia culturale di un paese senza democrazia. La seconda è che ora la questione del lavoro diventa quella centrale sulla scena italiana, e l’era dei governi di mafia si avvia alla conclusione. Ciò detto occorre pure riconoscere un paio di altre cose.
La prima è che gli operai industriali possono rompere la forma sociale del consenso che ha pesato negli ultimi venti anni, ma non possono sconfiggere il dominio del capitalismo finanziario. La seconda è che, qualora cadesse il governo di mafia (e non cadrà senza sconquassi pericolosi), la dittatura neoliberista non cadrebbe, anzi. Un governo Fini D’Alema Casini sarebbe più violentemente antioperaio e antisociale di quanto sia stato finora il governo Berlusconi.
Che futuro ha dunque il paese che celebra il centocinquantesimo anniversario della fondazione dello stato nazionale con una prova evidente di fallimento dell’esperimento unitario? Nessun futuro, diciamolo. La guerra antisociale che ha trovato in Sergio Marchionne il suo alfiere non è destinata a fermarsi. I Veltroni sono al servizio dello schiavista tanto quanto lo sono i Sacconi. Non c’è alternativa politica, ma neppure alternativa sociale. La classe operaia e il movimento cognitario saranno forse ora capaci di ricostituire un tessuto di autonomia solidale, ma non possono fermare l’offensiva schiavistica e autoritaria.
E allora? E allora cambiamo le nostre coordinate geografiche. La crisi italiana, senza soluzione, può divenire l’epicentro propositivo del terremoto che si sta dispiegando in tutto il bacino mediterraneo. La rivolta di Tunisi, quella di Al Qair, quella di Tirana, non sono “rivolte del pane” più di quanto lo sono la rivolta di Londra di Roma e di Parigi nei mesi dell’autunno 2010. Sono rivolte della prima generazione precaria connettiva, rivolte in cui la disperazione solitaria si tramuta in condivisione creativa, in cui nuove possibilità prendono forma.
L’insurrezione tunisina è cominciata con un suicidio. Il suicidio di un giovane laureato che lavorava come venditore ambulante cui veniva tolto perfino quella possibilità di guadagnarsi un reddito. Il suicidio è stato cifra dominante nella psicosfera collettiva della generazione precaria. L’atto che ha trasformato il panorama mondiale all’inizio del decennio, l’azione di diciannove giovani arabi sui cieli di Manhattan, è stato un suicidio. E il suicidio è esploso sulla scena del nuovo secolo – dalla Cecenia alla Foxxon cinese, dal liceo di Colombine alla Virginia Tech - come forma generale dell’azione politica in tempi di assenza di futuro. Ma ora questo movimento porta un nuovo messaggio. Uno per uno non abbiamo alcun futuro. Insieme possiamo inventarlo. Questo è il messaggio che viene dagli insorti di Londra e di Tunisi.
A Tunisi come a Londra i giovani insorti sono lavoratori precari con tutti i tratti rabbiosi del proletariato novecentesco, ma sono anche portatori del messaggio Anonymous-Wikileaks. La loro disperazione sta nella forma precaria di un’esistenza senza garanzie. Ma la loro forza sta nella solidarietà sociale e nell’autonomia della rete.
Per la crisi italiana non c’è soluzione perché il paese di Mussolini e Berlusconi non merita un futuro. Ma proprio dal precipitare di questa crisi, dall’intreccio di questa crisi politica con il collasso finanziario europeo, potrà emergere il processo di ridefinizione della geografia europea (una geografia estensiva) e della stessa missione storica europea.
L’entità europea è nata e si è sviluppata intorno al predominio della classe finanziaria e dell’ideologia neoliberista e monetarista. Questo dogma è duro a morire e la classe dirigente europea non sa fare altro che ripeterlo e imporlo.
Ma la questione sociale si sta imponendo con la forza dell’insurrezione. La forza stessa del collasso finanziario, il suo riproporsi in presenza di una crescente insurrezione euro-mediterranea porterà al crollo del dogma neoliberista.
Solo ragionando sulla dimensione europea estensiva, troveremo la forma politica capace di interpretare e dispiegare le potenzialità della società europea.