yani
Nuovamente si spegne la luce. Quanto a lungo resteremo al buio questa volta? Mezzo minuto.
Ci sono queste brevi interruzioni dell’elettricità, nessuno ci fa caso. Ma ogni volta potrebbe essere la volta buona, you know what I mean. Yani. L’intercalare più frequente. Un attimo di sospensione. Un attimo prima.
Solo i computer non si spengono ai tavoli del bread republic, e ciascuno continua a digitare imperterrito la faccia illuminata dalla luce eterna del ciberspazio.
Mi sono svegliato presto stamattina alle sei e tre quarti in preda a un’eccitazione pericolosa, folle. Ieri sera al Time out con una siriana un indiano due palestinesi un’italiana tre libanesi una mezza inglese e mezza non so cosa a parlare dei Grundrisse, del general intellect, della poesia dell’esaurimento dell’energia fisica e psichica, e della demografia mondiale. Nessuno fa cenno a quello che sta succedendo in Siria perché tutti lo sanno benissimo. Duecento morti al giorno a un’ora di auto da qui, e la violenza pronta a esplodere in ogni istante all’angolo di strada per ragioni imperscrutabili. Come reagirà Hezbollah al possibile crollo del regime siriano? Come reagirà Israele alla possibile reazione di Hezbollah?
Di prima mattina vado alla pasticceria franco-svizzera il posto più delabré che conosco, che la guerra ha risparmiato e la speculazione immobiliare non ha ancora raggiunto. Per quanto? L’arcigna signora che mi porta caffè e croissant au fromage si regge a malapena nel suo grembiule bianco. Difficilmente la troverò ancora se un giorno tornerò a Beirut, ce qui va se passer bientot, j’imagine, car cette ville à capturé quelque chose de profond dans mon esprit, yani.
Dal 12 gennaio insegno alla scuola Ashkal Alwan di Beirut. Non c’è luogo migliore per cercar di capire. La città, anche se in questo momento sembra assente e distante da ciò che sconvolge il Medio Oriente, è il centro culturale di un sommovimento che coinvolge l’intera regione. Disseminata di macerie eppure vitale, attraversata da innumerevoli linee di separazione etnica, religiosa, politica, eppure cosmopolita e vibrante, Beirut ha sopportato quindici anni di guerra civile, ha resistito e respinto l’aggressione israeliana. La scuola è un punto di incontro e discussione di gente che ha vissuto in modo consapevole esperienze molto diverse. Gli studenti ai quali insegno vengono da scuole d’arte e comunicazione, da Facoltà di Architettura o scuole di cinema della regione. Sono palestinesi, egiziani, iraqeni, libanesi, un’italiana, un francese. Il giorno successivo al massacro nello stadio di Port Said uno studente egiziano è scomparso, se n’è andato adducendo vaghe motivazioni familiari. Tutti sappiamo perché Mohammed, un tempo militante islamista e ora attivista impegnato nelle lotte operaie in una città egiziana lontana da Cairo, ha smesso di partecipare alle mie lezioni.
Non sono in grado (né credo che lo sarò fra due settimane alla fine del mio corso) di esprimere un’opinione sistematica su quello che vedo. Sto raccogliendo testimonianze e interviste con giornalisti, attivisti artisti e studenti che hanno partecipato e partecipano alle rivolte che si stanno svolgendo nell’area. Cerco di leggere tutto quello che è alla mia portata (nelle lingue che conosco), ma anche di farmi raccontare quello che non posso leggere. Riferisco le mie emozioni, che parlano la stessa lingua di coloro la cui lingua non posso capire.
Euforico disprezzo
Domenica 5 febbraio ho intervistato Serene, una scrittrice egiziana che ha studiato a Madrid e ha vissuto a Londra per molti anni, e nell’ultimo anno ha partecipato intensamente alla rivoluzione egiziana. Mi ha parlato del cambiamento delle forme di coscienza collettiva e del cambiamento individuale, mi ha raccontato il coinvolgimento di attivisti di formazione islamica e l’effetto di liberazione mentale che il movimento ha prodotto su di loro, mi ha descritto il mutamento radicale della percezione e dell’auto-percezione femminile nello svolgersi del movimento. Il senso generale del nostro colloquio mi pare così sintetizzabile: al di là degli esiti politici, che in questo momento sono assolutamente aperti e impregiudicati, questo movimento ha ormai messo in moto un processo di dissoluzione del vittimismo tradizionale della cultura araba. Le tradizionali definizioni (fondamentalismo islamico, laicismo, democrazia ecc) non rendono conto in alcuna maniera del processo che si sta svolgendo, processo di rottura dei dogmi comportamentali oltre che mentali, un processo di attivazione della solidarietà collettiva.
La testimonianza di un attivista che ha partecipato alle lotte operaie nella regione del Delta, di un artista di Alessandria, e di un giovane professore di formazione marxista conoscitore della bibliografia operaista italiana i quale insegna storia della civilizzazione islamica mi fanno pensare che l’evoluzione del processo iniziato un anno fa a Tharir Square sfugga completamente alle definizioni politiche con cui cercano di interpretarlo giornalisti occidentali e poteri politici mondiali.
L’idea che si tratti di un movimento per la democrazia è riduttiva se non propriamente abusiva: la riduzione “democratica” del movimento ha di fatto funzionato come una trappola. Il movimento è nato da una rivolta della vita quotidiana – la lotta sociale contro lo sfruttamento e i bassi salari, la libertà sessuale, l’esplosione di comunicazione dal basso.
La traduzione in termini di “movimento per la democrazia” lo ha ingabbiato dentro il processo elettorale. Volete la democrazia? Eccovela, hanno detto i militari. Ha così vinto la Fratellanza Musulmana, alleata con i militari, e il vecchio regime si ripresenta, mentre le condizioni di vita operaia e i salari non sono cambiati, e la pressione dal basso per il cambiamento della vita quotidiana non si interrompe.
Ma il movimento non si è fermato né è rifluito quando la gabbia democratica è scattata, e oggi riprende nuovamente, e rischia di essere spinto verso la violenza, anche se l’effetto del movimento nella vita quotidiana è una riduzione del tasso di violenza sessuale, sociale e psicologica. Il sentimento di solidarietà diffuso nella vita quotidiana, la sensazione di partecipare a un processo di condivisione amichevole, sta agendo come un potente antidepressivo e come un rilassante della paura che dominava nella vita del paese.
La rottura del ciclo della paura e il dissolversi della depressione è la lezione che il movimento europeo dovrebbe urgentemente apprendere. Per quanto catastrofica possa essere la vita quotidiana per chi vive sotto la costante minaccia israeliana o per chi non ha nessuna possibilità di trovare lavoro, la condizioni di allegra estraneità e di condivisione affettiva costituiscono un irreprimibile fattore di autonomia. Il movimento non si prefigge alcunché, ma crea continuamente le condizioni per sottrarsi al governo autoritario e alla depressione. Questa è la lezione che il movimento dovrebbe apprendere in Europa, dove l’assolutismo finanziario non può essere in alcun modo sconfitto per via politica, ma può essere semplicemente ignorato dissolto azzerato da una pratica di insolvenza, appropriazione e soprattutto da una pratica di condivisione esistenziale e solidarietà che renda inoperante il ricatto finanziario.
L’allegria del disprezzo contro il dogmatismo il fondamentalismo e l’oppressione militare – questa è la lezione che dobbiamo apprendere in Europa. Disprezzo per la dittatura finanziaria, disprezzo per il ceto politico che la gestisce e la impone, disprezzo per il ceto intellettuale che la legittima. Disprezzo e allegria.
Tristezza
Con la breve eccezione dell’ultimo fine settimana piove da quando sono arrivato qui, un mese fa.
Emily, l’artista palestinese che dirige il corso nel quale insegno, mi fa notare che in realtà sotto l’euforia e l’allegria sprezzante dei frequentatori del caffe Younis e del Bread Republic e dei cento locali che offrono wireless in una città in cui la connessione è rara, lenta e saltuaria, c’è una tristezza profonda. E’ vero, lo sento, oggi che la tristezza arpiona coi suoi artigli la mia anima.
Alla galleria Agial Omar Fakhoury espone una serie interminabile di quadri pop (mi viene in mente Jasper Johns ma anche Rauschenberg). Rappresentano tutti la stessa cosa: su sfondo grigio coloratissime garritte militari, filo spinato, pneumatici accatastati, deliquescence, caos, instabilità di macerie materiche.
Saba pittrice e architetto di origine palestinese che segue i miei corsi ha partecipato alla progettazione di un campo per palestinesi, dopo la battaglia che qualche anno fa ha portato alla distruzione completa di un campo in cui i salafiti avevano installato un loro centro di addestramento militare. I suoi lavori (meravigliose macchie di bianco e nero e grigio che disegnano città appese al cielo e liquefatto dissolversi di memorie viola e grigiastre) sono la mappatura delle macerie, e il titolo che lei propone è Building for a people without land.
B like in Beirut di Roy Dib, interamente girato con una telecamera cellulare è una sequela di immagini graffiate che iniziano con una scena di Hamani and the rainbow, un film televisivo degli anni della guerra civile: una bambina che ha perduto la madre durante un bombardamento e corre lungo la spiaggia cantano una canzone talmente struggente che mi manca il respiro, e trascina per la mano un uomo impazzito e gli dice possiamo essere felici costruendo castelli di sabbia. Poi, in un delirio elegantissimo di colori azzurro scuro e bianco squillante, un party mascherato che ricorda la scena dell’orgia in Eyes wide shut.
Samar è un’antropologa palestinese che ha scritto una tesi sulla crisi dell’identità maschile di coloro che hanno vissuto la sconfitta militare e politica, che è anche sconfitta di una comunità di cui i maschi si sentono i difensori. Nelle sue parole non c’è odio per gli assassini israeliani, per coloro che hanno riprodotto l’orrore, per poter riaffermare la loro identità di maschi umiliati dagli orrendi maschi nazisti in una catena infinita di rancore maschile forever.
Macerie e rivolta
Oltre la disfatta dell’identità euforia e rimozione.
Le macerie sono dovunque in questa città, che da mille anni almeno è luogo di conflitto e di violenza di scontro e di incontro di intreccio e di reciproca emarginazione tra le culture del dogma e dell’appartenenza. Alla domanda sei musulmana o cristiana – che le faccio distrattamente dopo averla frequentata per tre settimane senza che questa domanda idiota mi venisse in mente – la persona con cui lavoro mi risponde: non sono niente. Sono palestinese aggiunge, ma questa parola non indica affatto il sentimento di un’appartenenza, ma il riconoscimento di una sconfitta dalla quale non dobbiamo smettere di imparare.
L’appartenenza è l’orrore. Tutti coloro che in questa città sono miei amici sono come lei: niente. Io sono niente. Siamo niente, yani, cioè esseri umani che possono essere tutto: qualsiasi cosa la cultura e il desiderio sappiano costruire.
Ora lo so perché Beirut è diventata in così poco tempo il posto più importante della mia mappa interiore. Perché qui c’è scritto il futuro, non il passato.
“Beirut è la risposta artistica a condizioni che stanno diventando sempre più comuni nel mondo: guerra civile, estremismo settario, sfruttamento economico, disperazione.” (Ken Seigneurie: Standing by the ruins, 2011)
Qui vedo le macerie dell’Europa che viene, la guerra civile e il nazismo dei prossimi dieci anni in Italia Ungheria, Spagna, Regno Unito, in Russia in Ucraina e in Grecia.
Ma al tempo stesso vedo la rivolta che cresce tutt’intorno, il coraggio di sfidare le pallottole dei dittatori, la gioia sprezzante di chi sa che morire non è peggio che vivere da schiavi.
“a Beirut ho acquisito il sentimento che la cultura, mentre evoca piacere, può anche preservare i valori del coraggio della generosità e della convivialità in società che sono sottoposte a conflitto civile di lunga durata.” (ibidem)
Senza retorica e con una certa malinconia gli abitanti liberi di questa città hanno imparato a vivere in modo gioioso – talvolta euforicamente - in un panorama di macerie. Noi europei abbiamo qualcosa da imparare da Beirut: dobbiamo imparare in fretta a liberarci dal vittimismo della precarietà e dell’immiserimento. Al capitalismo predone della finanza, che ogni giorno viene a predare quello che abbiamo prodotto con il nostro lavoro dobbiamo opporre una povertà felice. Non produrremo più niente per voi. Produrremo di nascosto, nelle nostre catacombe, e non parteciperemo più al vostro consumismo e alla vostra produttività criminale.
Saremo poveri perché chi è povero non ha nulla che gli si possa depredare. Ma saremo anche ricchi perché la nostra ricchezza non è fatta di accumulazione ma di disprezzo e di allegria, di poesia e di pane prodotto clandestinamente perché gli assassini del governo Monti non ce lo possano portare via. Pane biologico, buono come il vostro merdoso pane non potrà essere mai. Bicicletta, veloce nel traffico come le vostre merdose auto non potranno mai essere.
E in questa città dove si incontrano i poeti e i giornalisti che arrivano dal Cairo e da Damas, da Ramallah e da Gaza impariamo la lezione della tempesta araba, che non è una lezione politica ma una lezione poetica: la riattivazione del corpo collettivo desiderante, del corpo solidale e del corpo erotico, il disprezzo (sia pure malinconico) di Magda Allam che mostra la sua fica acerba come una dichiarazione di irriducibile autonomia, con quel nastro e le scarpine rosse che ridono e gridano nel grigio.
Qui in mezzo alle rovine imparo la lezione che servirà al movimento in tutto il mondo, e specialmente in Europa: basta col vittimismo, basta con la depressione che paralizza. Serene, la giornalista egiziana che mi ha insegnato più cose, quando le ho chiesto se non teme di poter essere vittima della vittoria islamista, mi ha detto: basta con il vittimismo che voi europei lettori di Frantz Fanon e di Samir Kassir leggete sempre nel mondo arabo. La rivolta di questi mesi spazza via il vittimismo. Non siamo vittime, siamo ribelli.
Basta compagni con il vittimismo precario. Non siamo vittime, siamo ribelli. Ce ne fottiamo del loro salario e del loro lavoro. Ruberemo, rapineremo, arrafferemo nei grandi magazzini quello che ci occorre. Sputeremo in faccia al funzionario Goldman Sachs che ha preso il posto di Silvio Berlusconi. Anche se dovremo sfidare la galera, e le pallottole. Come Carlo Giuliani. Come trecento persone al giorno, nelle città siriane, a pochi chilometri da dove sto scrivendo.
Il brusio dei ristoranti e il rumore dela guerra
Nei ristoranti di Hamra, il quartiere bohemien di Beirut dove passo le mie serate, il brusio non si attenua, ma il rumore della guerra si avvicina. Ieri sono scoppiati combattimenti nel nord del paese tra la comunità sunnita e quella alawita di un sobborgo di Tripoli. Anche a Beirut si nota un certo nervosismo. Carri armati all’imbocco delle strade principali del centro, militari e posti di blocco. All’ingresso del ristorante sono stato perquisito da guardie armate. Non mi era ancora successo. Martedì prossimo è l’anniversario dell’assassinio di Rafic Hariri da parte dei servizi segreti siriani. Massima allerta. Le linee di possibile precipitazione del conflitto si confondono. In Turchia la classe dirigente è spaccata verticalmente: il partito islamico neoliberista al potere è tentato di intervenire a fianco della Free Sirian Army – la porzione dell’esercito siriano che si oppone con le armi al regime stimata intorno al dieci per cento della forza complessiva, pronta ad una prolungata guerra di guerriglia se qualcuno non assesta il colpo finale dall’esterno. Ma l’esercito turco sta dalla parte del regime siriano. In Turchia governo ed esercito sono ai ferri corti su questo punto: intervenire in Siria contro Bashir oppure starsene a guardare appoggiando indirettamente il regime? Per Erdogan l’intervento sarebbe una carta straordinaria: risolverebbe un problema per americani ed europei, e diventerebbe definitivamente l’eroe del mondo arabo neoliberista-moderato. Ma non è detto che ce la farà, i militari sono indeboliti ma non al punto di poter fare una guerra senza il loro accordo. Seguiamo quello che accade in Turchia, anyway, perché da lì potrebbe venire una grossa sorpresa.
Una seconda linea di precipitazione è l’intervento israeliano contro l’Iran, che potrebbe scatenare un coinvolgimento militare di tutte le forze della regione.
Vado a pranzo con Wissam Saadi, giovane commentatore politico della televisione libanese, studioso di storia della civilizzazione islamica ma anche raffinato conoscitore del pensiero operaista e post-strutturalista.
Come va a finire in Siria? Chiedo a Wissam appena ci sediamo al tavolo del ristorante Marrouchi che fu un tempo il posto di ritrovo dell’intellettualità comunista cittadina e infatti adesso è completamente vuoto. Lo so che si tratta di una domanda cretina perché se lo sapessero non verrebbero a raccontarlo a me, ma è l’unico modo per costringere qualcuno a parlare di un argomento di cui si parla poco volentieri.
In tutti i caffè di Beirut si parla di quello che succede al Cairo perché si tratta di un argomento eccitante e l’Egitto è abbastanza lontano, mentre di Siria se ne parla poco, perché quello che accade in Siria fa paura.
Wissam comincia parlandomi del rapporto tra Libano e Siria che non è certo stato interrotto dalla cacciata dell’esercito siriano. Il legame più profondo si trova a livello sociale: gli operai siriani sono la componente maggioritaria nel settore delle costruzioni, seconda fonte di reddito del paese dopo quello degli intercambi finanziari.
Poi mi parla del ruolo che il Partito social-nazionale siriano, nato negli anni trenta come diretta filiazione del partito di Hitler, ha sempre avuto e continua ad avere nella politica libanese. E’ il partito che controlla il sindacato delle costruzioni e cui spetta quasi di diritto il ministero del lavoro. Mentre venivamo al ristorante siamo passati davanti alla sede di questo partito e Wassim mi ha fatto notare l’orribile bandiera (una svastica arrotondata nera su sfondo rosso) che sventola nel vento umido del pomeriggio.
Secondo Wissam Bashir resiste perché punta a islamizzare l’opposizione. Chi potrà reggere organizzativamente una guerra civile, infatti, se non gli islamisti? E il tiranno punta a questo perché oggi i ribelli siriani che appaiono sui giornali occidentali hanno facce di studentesse e giovinetti sbarbati, mentre fra un po’ potrebbero esserci facce barbute e aggressive, e faranno paura, così gli americani smetteranno di fare il tifo per gli insorti.
Già adesso gli americani non capiscono quasi niente di quello che accade, ma questa non è una novità. Paradossale è il fatto che l’opposizione anti-Bashir ha radici essenzialmente anti-americane, come tutto ciò che si esprime nella regione. E’ difficile da credere, per chi osserva dall’esterno, ma una delle accuse che vengono rivolte al regime di Bashir Hassad è quella di essere un servo degli americani. Il cantante Brahim Kashoush, che è stato sgozzato recentemente dai bashiristi cantava una canzone in cui insultava il dittatore con la cravatta per essere uno strumento dell’imperialismo americano.
Uno dei temi su cui ho intervistato più intensamente il mio amico Wassim è naturalmente la funzione che i media hanno svolto e svolgono nella rivolta che si sta svolgendo.
Wassim, ha poco più di trent’anni, ma si sente piuttosto lontano dalle mode giovanili e dal culto occidentalista per le tecnologie digitali e la rete. Il ruolo di Internet a so parere è stato sopravvalutato. Se si crede alla favola secondo cui la rivoluzione araba è un effetto della diffusione di Internet non ci si spiega come mai la rivolta ha conquistato le campagne dove la diffusione della rete è quasi nulla, mentre non ha per il momento coinvolto le due grandi città che hanno certamente una maggiore densità di connessioni.
Nel caso dell’esplosione egiziana certamente i blog hanno giocato un ruolo significativo, ma l’effetto più importante l’hanno avuto le televisioni, in particolare Al Jazeera e Al Arabija.
Condivido fino a un certo punto le considerazioni del mio amico Wassim. La funzione della rete a mio parere non è stata essenzialmente quella di veicolare contenuti politico o informativi, ma quella di diffondere uno stile di linguaggio, delle aspettative culturali, sessuali, di consumo, che hanno contribuito indirettamente all’esplosione politica e che stanno (mi sembra) riducendo il peso dell’islamismo sia religioso che militante sulla nuova generazione.
Al tempo stesso riconosco che per quanto riguarda la trasmissione di contenuti direttamente politici nei paesi islamici la rete funziona più o meno come negli Stati Uniti d’America: come un fattore di rincoglionimento dogmatico e settario. Contrariamente all’idea (che sostenevo venti anni fa quando nessuno ancora sapeva cosa fosse Internet) secondo cui la rete è destinata a rompere ogni forma di dogmatismo e di appartenenza, Internet sta funzionando esattamente come un sistema di perfetta reclusione dogmatica e settaria.
Il fenomeno di imbecillità aggressiva di massa che va sotto il nome di Tea Party nasce anche dal fatto che Internet è rigorosamente settato sul sito della tua setta (spero vi piaccia l’allitterazione). Lo stesso accade nei paesi arabi dove Internet dà vita a un fenomeno che si potrebbe definire ciberclanismo (l’espressione è di Wassim). Ciascun clan ha il suo sito e chi fa parte del clan accende il computer come se entrasse in una chiesa, o nello spazio reclusivo del clan.
Cerco di capire qualcosa di più sul ruolo delle televisioni e sulla composizione sociale, culturale, etnica, dei professionisti della comunicazione. Secondo Wassimo (che in questo campo ha esperienza diretta) Al Jazeera rappresenta la classe media scolarizzata soprattutto sunnita. Rari gli sciiti, pochi i cristiani. Le donne non sono poche e all’inizio non portavano il velo. Poi c’è stata una polemica su questo punto e adesso buona parte delle corrispondenti di Al Jazeera sono velate.
I regimi autoritari, anzitutto quello di Moubarak, hanno favorito l’emergere di predicatori televisivi islamisti non salafiti per fronteggiare la crescita dell’islamismo radicale. Barbuti più coglioni e aggressivi ancora dei salafiti sono serviti per contenere l’opposizione contro il regime. Poi è successo quello che è successo, e gli islamisti televisivi pro-Moubarak come Amr Haled sono passati dalla parte della rivoluzione. Naturalmente continuano a fare il loro sporco mestiere di predicatori della violenza dogmatica, ma si sono convertiti al neoliberismo, e fingono di appoggiare la rivoluzione anti-moubarakista però ne criticano gli estremismi che potrebbero danneggiare l’economia.
Appena rientrato da Davos – dove naturalmente è stato ricevuto da quel fior di rivoluzionari che sono i rappresentanti politici ed economici della dittatura finanziaria mondiale, Amr Haled è andato a blaterare in una televisione per informare gli egiziani delle sue scoperte. I grandi del mondo, ha riferito, sono d’accordo con la rivoluzione egiziana perché ci ha liberato di un tiranno (che fino a un anno fa pagava a lui lo stipendio ed era riverito dai grandi democratici che si riuniscono a Davos) portandoci così la democrazia. Ma i saggi consulenti delle agenzie finanziarie del mondo riuniti a Davos criticano l’estremismo che sta danneggiando l’economia.
Per un dogmatico seguace di Allah non è difficile intendersela a perfezione con i dogmatici adoratori del saggio d’interesse.