A metà degli anni ’70 Franco Fortini dedicò qualche pagina pungente all’impresa teorica del giovane Cacciari – si tratta più o meno dell’epoca di Krisis – impegnato allora a sdoganare Nietzsche e Wittgenstein dalla reazione idealistica e però, allo stesso tempo, deciso a ripiegare la potenza ermeneutica del pensiero della crisi sugli algidi orizzonti dell’analitica weberiana. Seppure timido rispetto a questi autori, Fortini ben colse già allora, il tentativo di apparecchiare un Nietzsche per tutti, buono per consolare i sacerdoti della pianificazione capitalista e carezzare i desideri sovversivi dei giovani filosofi. L’approccio di Cacciari fu allora descritto come un saggio immancabile di chi vuole ad un tempo dirsi belva e compagno: internazionalista e rivoluzionario certo, ma solo come sanno esserlo gli agenti delle multinazionali della finanza. È curioso notare come si ripresenti ad ogni tornante critico questa posa ambigua: antiaccademica ma d’ordine, coraggiosa nell’immaginare il futuro ma solo in quanto coincide col presente, tecnocratica ma certo infinitamente più sottile e forte di ogni nostalgia gauchiste, d’ogni amore per tutto ciò che é Stato.