Tempo fa un amico mi scriveva: “Ho saputo che da qualche settimana stai litigando su Facebook con ****, che nel mondo del giornalismo italiano e’ un astro nascente. Stai attento, che per il mestiere che fai e’ pericoloso.” Non era la prima volta che ricevo consigli del genere, e non era la prima volta che ne conoscevo le ragioni. Quante volte mi sono detto: sii piu’ cauto, commenta solo quanto necessario; clicca “mi piace” quando non e’ compromettente; evita un linguaggio acido e polemico. Magra e’ la consolazione di non essere solo in questa debolezza. Un altro amico mi confessava: ”Quando leggo la maggior parte dei giornali online mi faccio prendere da un moto di rabbia… A volte non riesco a fare a meno di intervenire, condividere, dire la mia. Ma per il mio lavoro e’ imbarazzante. A volte creo profili fittizi. O resto anonimo.”
Non e’ una sorpresa che la struttura dei social media e di Internet 2.0 in generale si basi sulla tendenza umana a condividere sensazioni e informazioni. Sulla nostra nostra incapacita’ di autocontrollo, sulla nostra mancanza di disciplina interiore. Il problema e’ che i social media rendono sempre piu’ trasparenti le nostre vite in una cultura che fa dipendere il nostro sviluppo sociale da una miriade di segni, di dettagli, di esami da superare. Rendendoci cosi’ vittime della nostra stessa addiction.