Iniziamo dalla domanda fondamentale. Cos’è un intellettuale?
Osare rispondere richiede una certa dose di spregiudicatezza, ma ci si proverà ugualmente. Un intellettuale è una persona in grado di analizzare problemi non specialistici (e di de-specializzare problemi fino ad allora considerati tali) al fine sia di riformulare le problematiche contenute in essi, sia di proporre soluzioni tattico-dinamiche e strategico-strutturali. Diversamente da altre figure, come il poeta o il mistico, l’intellettuale agisce solo in quanto membro di un consorzio umano e in questo senso i problemi e le soluzioni a cui lavora riguardano la vita in comune.
L’intellettuale esiste in maniere molto diverse a seconda del contesto in cui si trova.
In una comunità in cui la sua condizione è minoritaria, il suo posto é necessariamente nel confino di una ‘torre d’avorio’, da cui gli é possibile soltanto avere una comunicazione uno-a-molti (di tipo essenzialmente televisivo) con i suoi ascoltatori, che si costituiscono negativamente come ‘massa’.
In una situazione in cui la sua posizione è quella comune a ogni membro della comunità, invece, la sua comunicazione con gli altri é da pari a pari e la sua figura si dissolve all’interno di una intellettualità che diventa positivamente ‘di massa’.
Cosa si intende per intellettualità di massa?
Certamente non il semplice risultato di un’educazione scolastica diffusa, magari lubrificata dall’espansione dei media, come è avvenuto negli ultimi sessant’anni nel mondo occidentale. Nemmeno il risultato dei nuovi sistemi produttivi, che hanno convertito le folle operaie del ‘900 in equivalenti folle di cognitariato precario. L’essenza di un intellettuale, e dunque di una possibile intellettualità di massa, è piuttosto di tipo politico: è l’intelligenza critica in grado di immaginare nuove possibilità di vita. L’intellettualità di massa è dunque la caratteristica di una collettività di persone intente a immaginare e ad agire in maniera diretta e decisiva sulla struttura e sulla dinamica delle relazioni sociali, cioè sull’insieme di cultura, politica e economia, non più considerate separatamente.
Per immaginare un superamento sia della versione novecentesca di intellettuale che, seppur magari ‘organico’, è comunque socialmente isolato e posizionato gerarchicamente, sia di quella contemporanea del pop-intellettuale da talk show, bisogna quindi partire dal contesto in cui questa intellettualità è all’opera. Bisogna partire dal problema della logistica degli intellettuali: dal problema politico. In altre parole, una nuova possibile intellettualità di massa richiede una nuova comunità di riferimento. Non si tratta qui di riproporre una repubblica dei filosofi di tipo totalitario e di memoria platonica, ma piuttosto il suo opposto: invece di una divisione gerarchica dei ruoli, alla sua base deve esserci una condivisione universale delle pratiche intellettuali.
Una comunità in grado di far fiorire un’intellettualità di massa è infatti una comunità in cui la rappresentanza politica e intellettuale vengano abolite, in favore di una azione diretta dei suoi membri. Al suo interno, il rapporto tra produzione e consumo culturali diventa l’opposto di quello vigente nelle società occidentali contemporanee: il consumo non è più l’unica forma di produzione possibile, ma piuttosto è la produzione culturale ad essere la forma di consumo per eccellenza, in quanto origina dalla condivisione e dal libero riutilizzo dei prodotti dell’intellettualità collettiva e si riversa nella potenza creativa della vita delle persone.
In una comunità in cui tutti gli individui sono coinvolti in modo diretto e esclusivo nell’incessante reinvenzione immaginifica e nella pratica dinamica della vita sociale, ogni elemento vitale e culturale diventa non solo produttivo (come é in un certo senso il caso anche nel tardo bio-capitalismo), ma immediatamente ed esclusivamente decisivo. In questo senso, la produttività autonoma di una vita intellettualmente potente si contrappone alla sterilità di una vita mutilata che cerca invano una valvola di sfogo nell’enternainment o negli hobbies.
É pur vero che gli hobbies e l’entertainment sono già, in qualche modo, produttivi e creatori di qualcosa. In senso commerciale, ad esempio, producono miliardi, e producendo nel frattempo identità e sotto-gruppi sociali, e, soprattutto, producendo il lubrificante e il cemento di quella pseudo-democrazia dei consumatori che è alla base del tardo capitalismo contemporaneo. La loro produttività, quindi, è di tipo ‘esterno’: si installa sui corpi degli individui ‘ospiti’ secondo logiche di sfruttamento parassitario e si riversa infine in una accumulazione astratta di capitale (simbolico o monetario). All’opposto, la produzione intellettuale di massa è produttiva in maniera ‘interna’ alla vita degli individui: nasce dalla liberazione non-finalizzata della loro potenza vitale e si traduce naturalmente nella continua immaginazione e creazione e di nuove possibilità di vita. In questo senso, la vita all’interno di una intellettualità di massa é una celebrazione atea e materialistica di un mondo in cui non solo Dio é scomparso, ma lo sono anche tutti i suoi surrogati astratti: la vita si presenta e si dispiega nella sua essenza autotelica.
Perché questo avvenga, è prima di tutto necessario rimuovere una serie di blocchi che impediscono da un lato la possibilità stessa di un’immaginazione non finalizzata, dall’altro la possibilità per tale immaginazione di prendere forma sul piano delle relazioni sociali. In questo senso, il lavoro di preparazione logistica di un’intellettualità di massa deve avvenire contemporaneamente su due terreni: quello individuale del lavoro di di sé, ovvero della ‘terapia’, e quello comunitario della politica.
Sarebbe questo il caso, ad esempio, se si volesse affrontare il problema della sudditanza della vita a narrative parassitiche quali quelle del lavoro, del denaro, o di un’identità nazionale, etnica o religiosa. Il lavoro, in particolare, offre un interessante spunto di riflessione al riguardo. La sua essenza contemporanea sembra essere quella di una serie di micro-azioni specialistiche, finalizzate a una serie di micro-obiettivi, ma la cui cornice generale di senso rimane quasi sempre inspiegabilmente avvolta nel mistero. Se la domanda degli operai nelle catene di montaggio novecentesche era ‘che cosa diavolo stiamo producendo, qui?’, quella dei lavoratori odierni è piuttosto ‘perché mai stiamo producendo proprio questo?’. In un’epoca schiacciata tra le crisi di sovrapproduzione, di esaurimento delle risorse naturali e psicofisiche e dell’impossibile smaltimento dei rifiuti, il dilemma del senso della produzione si fa sempre più pressante. Proprio per questo, l’intervento da compiere nei riguardi del lavoro deve essere da un lato la creazione individuale di un nuovo senso del proprio agire, e dall’altro la messa in atto di un’immaginazione sociale in grado di superare il mito della crescita infinita e dello sviluppo capitalista. Il lavoro di un’intellettualità di massa si traduce quindi in una doppia opera di rimozione e costruzione: alla rimozione delle strutture di senso e delle strutture sociali che si oppongono alla sua possibilità di esistere, l’intellettualità di massa deve immediatamente affiancare la costruzione di una comunità di riferimento adeguata.
Ad ogni modo, il movimento verso un’intellettualità di massa non si pone come la continuazione (neppure dialettica) di alcuna precedente narrazione storica, ma agisce piuttosto come il grado zero della politica. Per riprendere il pensiero della scrittrice femminista Nawal el Saadawi, secondo cui ‘bastano due persone in una stanza perché ci sia della politica’, la politica può essere definita come quella cosa molto semplice che avviene non appena un individuo entra in contatto con il mondo esterno degli oggetti e delle persone.
Proprio per questo, non é tanto nell’educazione librario-televisiva che l’intellettualità di massa può cercare il modo migliore attraverso cui propagarsi, quanto piuttosto nella forza dell’esempio personale di coloro che la mettono in pratica. Chi leggesse in questo richiamo un qualche elemento evangelico non si sbaglierebbe di molto: al di là del contenuto del messaggio evangelico del primo Cristianesimo, infatti, i metodi della sua propagazione sono senza dubbio uno degli esempi migliori di come nuove possibilità di vita possano trasformarsi in dirompenti forze storiche, se il contenuto teorico che le anima si unisce alla potenza dell’esempio personale e alla costituzione di comunità basilarmente politiche.
Coloro che ad oggi si ritengono già in grado di vivere in maniera intellettuale, dovrebbero quindi ricordare di intervallare l’uso della penna e della voce con quello del corpo e delle mani. Impegnandosi di meno nell’organizzare manifestazioni, conferenze o corsi universitari, potrebbero dedicarsi con uguale intensità all’effettiva creazione di comunità di esseri umani in cui sia possibile una vita libera e tra eguali. Potrebbero addirittura decidere di non concedersi più il lusso di produrre un lavoro teorico a cui non faccia seguito l’effettiva liberazione di uno spazio/tempo dove costituire una comunità in cui proseguire il discorso teorico con la forma più basilare della politica: la propria vita in un contesto sociale. E nel profondo, ci auguriamo, potrebbero anche permettersi di osare sostituire la cautela di chi pensa che la propria libertà finisca dove comincia quella altrui, con l’urgenza di chi crede che la propria libertà e quella altrui comincino nello stesso punto.
Soltanto così, la figura dell’intellettuale, con la sua immancabile torre d’avorio, potrà finalmente dissolversi in una pratica intellettuale che sempre più si confonda con la semplice e piena vita.